A COSA SERVE IL TDOR

Alcuni anni fa chiesi a un’amica: «Cos’è il TdoR?». Lei per un attimo mi guardò con aria sorpresa, poi vidi sul suo volto manifestarsi un moto che all’epoca intesi d’indignazione.

«Non sai cos’è il TdoR? È l’International Trans Day of Remembrance. Il 20 novembre è il giorno dedicato al ricordo delle persone trans uccise». Il suo tono era glaciale ed io mi sentii leggermente in colpa per la mia ignoranza da provincialotto; pensai: «sono trans, sono vivo: dovrei conoscere il TdoR» e subito dopo – dato che sono astioso nei confronti del concetto di dovere – provai fastidio per il mio stesso senso di colpa.

Capire perché il TdoR viene annualmente celebrato può stimolare riflessioni che non solo ci fanno sentire parte di una comunità, ma ci dicono anche qualcosa di più sul nostro essere umani. Quando una statistica parla non si può che rimanere in silenzio e annuire, per esempio: sono state assassinate il 6% in più di persone trans* rispetto al 2019. Quindi nel giro di un anno sono state uccise 350 persone trans. Chi muore spesso vive situazioni intersezionali: essere migrante, essere ner*, essere pover*, essere trans* essere sex worker. Il privilegio dei vivi sembra distante anni luce da quello dei morti. Il ricordo, dunque, è anch’esso una prerogativa del privilegio? Essere bianch*, benestanti, borghesi può permettere di comprendere realmente una persona trans*, non bianca, povera, a cui viene strappata la vita?

Possiamo uscire da questo loop se proviamo a utilizzare la memoria eticamente. La memoria è una cosa strana: un movimento che dall’interno porta all’esterno qualcosa che non-è-più. Il macigno del così-fu contrapposto al così-è-ora.

Da ventun anni, ogni 20 novembre, hanno luogo commemorazioni di vario tipo, post sui social con cornici create per l’occasione; un intero mondo si muove e per un giorno tutti parlano di memoria e di morte – in un contesto spesso regolato dalla sicurezza del consumo. Così, mentre proviamo a empatizzare con i morti, il macigno del tempo e il logorio della memoria hanno la meglio e a volte vincono.

Ricordare chi è morto non ha chiaramente nessun valore per chi sta marcendo in una fossa comune, probabilmente con una targa col nome sbagliato – un nome, che per una persona trans*, era già morto durante la vita. Ha valore quando il concetto di memoria e quello di morte contribuiscono a creare una dimensione etica in cui noi, in quanto esseri umani, ci ritroviamo tutt*, dato che, a prescindere dalle fette di privilegio che possiamo o meno avere sugli occhi, la morte ci riguarda quanto la vita.

Ricordare implica serbare presso di sé il passato, dunque è il ricordo stesso a nascere morto, e nascendo morto acquisisce una carica esplosiva perché diventa un terreno sul quale si sedimenta la storia. Strati e strati di tempo: narrazioni, vite che si incrociano; un’enorme distesa rigogliosa e verde che cresce solo perché concimata nel modo giusto. Ed è così che possiamo compiere un piccolo atto di bellezza: testimoniando l’orrore, che non è solo la morte inflitta, ma anche la quotidiana violenza applicata sui corpi. Anche l’orrore socialmente accettato: assunti nomologici in base ai quali la persona e il suo corpo vengono astratte dal presente e ricondotte a una sfera di significati prestabiliti.

Ogni giorno la continuità della nostra esperienza è data da quelle che l’hanno preceduta e, allo stesso tempo, modifica in qualche modo quelle che verranno: ed ecco perché ricordare è meraviglioso, straziante e necessario solo se calato nella realtà. Non perché è il giorno del TdoR, non perché siamo trans* e/o parte di una comunità LGBT+. Non perché siamo vittime o carnefici, questa dialettica è sterile.

Noi possiamo essere parte di un cambiamento reale: oltre la morte e le astrazioni applicate sui corpi, oltre le dinamiche categorizzanti: rimane alla fine, di ognun* di noi un mucchio di ossa e vermi.

Immagine nel testo da arcigay.it