L’educazione alla sessualità come antidoto al silenzio
“Il mio ragazzo mi ha detto che è allergico ai latticini, quindi non può usare il preservativo. Come faccio a non restare incinta?”, “Ma l’orgasmo ce l’hanno anche le donne?”, “Come fanno sesso le lesbiche?”, “Si può essere innamorati di due persone contemporaneamente?”, “Come faccio a far capire alla mia compagna di banco che mi piace?”, “Una volta mi sono masturbato insieme ad un mio amico, mica sono gay?”, “Certe volte mi sento un po’ maschio e un po’ femmina. È normale?”
Le domande che frullano nella testa degli adolescenti – e che fanno battere il cuore, sudare le mani, ridere e darsi di gomito – sono molte e articolate. Riguardano il corpo, le relazioni, il sesso, l’amore e tutto quello che ci sta intorno. Chi di noi non si ricorda quella tempesta di dubbi, quesiti e desideri che ci ha attraversato in quel lasso di tempo – spaventoso, divertente, unico – in cui abbiamo vissuto cambiamenti inesorabili ed esperienze importanti? Un periodo in cui ci siamo scoperti/e inquieti/e, sgangherati/e, fragili, prepotenti e imperfetti/e; in cerca di risposte sulla nostra identità, sul nostro orientamento e sulle nostre sperimentazioni sessuali e relazionali. Come si risponde oggi, in Italia, a queste domande? E, se spetta a qualcuno farlo, a chi e in che modo?
Da anni, ormai, mi occupo di quella che viene definita “educazione sessuale, alla sessualità, al genere, alle differenze, all’affettività”: quegli spazi educativi in cui ragazzi e ragazze possono (anzi, potrebbero) mettersi in gioco e apprendere in maniera circolare e condivisa competenze e informazioni su identità, sessualità, relazioni e, soprattutto, salute. Da antropologa ed educatrice frequento le aule scolastiche, i centri socio-educativi, i servizi pubblici in cui (non) ci si prende cura del benessere sessuale e relazionale dei e delle giovani. Se da un lato ho l’obiettivo di riflettere sulla complessità delle identità e delle esperienze sessuali, dall’altro devo evidenziare la frammentazione delle politiche pubbliche e degli interventi educativi – nel contesto italiano contemporaneo – volti a promuovere il benessere affettivo, sessuale e relazionale di ragazzi e ragazze.
In Italia, infatti, non esiste una legge nazionale che regoli l’educazione alla sessualità per adolescenti oltre alla Legge per l’Istituzione dei Consultori Familiari (n. 405/1975), volta a garantire la presenza di servizi socio-sanitari ed educativi sul territorio nazionale. Negli anni, le Proposte di Legge presentate dai vari schieramenti politici sono state diverse (n. 1510/2013; n. 2783/2014; n. 2667/2015) ma nessuna è stata mai approvata. I soliti Paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Paesi Bassi), invece, si sono dotati da decenni di leggi che sostengono – e soprattutto finanziano – percorsi formativi di promozione della salute sessuale pensati per le persone più giovani. Anche le policy internazionali prodotte da Unesco, Organizzazione mondiale della sanità, Unicef, Unione europea propongono la strutturazione e l’implementazione di una comprehensive sexuality education: un’educazione che, calibrata sull’età e sui bisogni del target, possa considerare sessualità e salute integrando fattori anatomico-fisiologici e socio-culturali, fornendo spazi di confronto e servizi dedicati alla prevenzione dei comportamenti a rischio e alla tutela del benessere della persona.
Nel contesto italiano, educare al genere e alla sessualità è molto complesso – da un punto di vista sociale, politico, legale – poiché le opinioni e le posizioni a riguardo sono spesso discordanti e in contrasto tra loro. Rendere s-oggetto di educazione le soggettività sessuate dei e delle giovani e, perché no, degli adulti, ha a che fare con questioni bioetiche e politiche rilevanti che riguardano le identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, i diritti, l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva e, più in generale, la capacità (o mancata tale) di accedere a risorse pratiche e simboliche attraverso cui costruire i propri percorsi esistenziali, sessuali, affettivi, relazionali e identitari.
Si tratta di temi controversi che riguardano le opinioni e le esperienze di ciascuno/a, su cui è, quindi, difficile costruire una visione socio-politica omogenea o, almeno, inclusiva. La sessualità – intesa come un insieme di fattori che includono anche le esperienze e rappresentazioni di genere –, da un punto di vista educativo, quindi, è l’elefante nella stanza: un pachiderma ingombrante che tutti e tutte vediamo ma che nessuno (per motivi diversi) osa indicare.
Negli ultimi anni, la situazione si è complicata quando un neologismo ha cominciato a circolare, inasprendo il dibattito pubblico. Si tratta dell’espressione “ideologia gender”: etichetta, allo stesso tempo minacciosa e nebulosa (si noti l’uso dell’inglese) usata come una cornice concettuale in cui inserire spinte polemiche – non solo di matrice religiosa – legate al tema dei diritti (sessuali) di chi è più giovane (e non).
Tali posizioni sono oggi rilanciate da un gran numero di associazioni strutturate o semplici reti di cittadini e cittadine (tra cui il Movimento provita, La Manifs pour tous Italia, Giuristi per la vita, il Forum delle associazioni familiari, Sentinelle in piedi). Avete presente quelli/e che “Non ho niente contro gli omosessuali, ma.”, “Bisogna pensare ai bambini”, “Non si può dire ai bambini che devono scegliere se essere maschi o femmine” o, ça va sans dire, che “I bambini hanno bisogno di un padre e una madre”? Secondo i fautori e le fautrici di questa “visione”, l’educazione alla sessualità (e al genere) causerebbe una precoce sessualizzazione dei/delle bambini/e, “promuoverebbe” l’omosessualità, minaccerebbe la “famiglia tradizionale”, il diritto della stessa di occuparsi della sessualità dei/delle giovani e, infine, ne minerebbe i diritti.
Questo tipo di posizioni – non solo conservatrici, ma anche pericolose – sono inquadrabili in una più ampia logica volta a bloccare innanzitutto innovazioni giuridiche specificatamente rivolte alla riduzione delle discriminazioni subite dalle persone non eterosessuali (matrimonio egualitario, stepchild adoption e riconoscimento dell’omogenitorialità, contrasto della violenza di genere e omotransfobica) e, in secondo luogo, la costruzione e la diffusione di politiche pubbliche e relative pratiche educative volte a supportare l’educazione alla sessualità.
Perché, quindi, in Italia, parlare di sessualità, educare alla pluralità identitaria e all’autodeterminazione sessuale le giovani generazioni fa così tanta paura da scegliere come strategia educativa più diffusa il silenzio? Perché, come una volta mi ha chiesto un ragazzo: “il sesso orale è quello che si fa con le parole, vero?”
Ebbene sì, il sesso (non solo quello orale) è quello che si fa (anche) con le parole. Parole spaventose che danno voce a quei quesiti e a quei desideri plurali che, tuttavia, appartengono a tutti e tutte. Ed è proprio dalle parole che dobbiamo (ri)partire.
pubblicato sul numero 29 della Falla – Novembre 2017
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