La sagoma minuta di un’anziana signora si staglia contro un imponente cancello su cui campeggia la scritta “Arbeit macht frei”, poco dopo si aggira da sola in ciò che rimane del campo di concentramento nazista di Dachau. Il sito è deserto e immerso nel silenzio, lei si ferma davanti a una cappella con una grande croce e mormora: «sono qui». Questa è una delle ultime scene del documentario di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini C’è un soffio di vita soltanto, la cui protagonista è Lucy Salani, sopravvissuta al lager e forse oggi la più anziana donna trans* italiana. Il film è stato presentato fuori concorso al Torino Film Festival nel dicembre 2021 e Lucy era presente, così come ci sarà il 27 gennaio alla Cineteca di Bologna per la proiezione in occasione della Giornata della Memoria. Il titolo del documentario viene da una poesia scritta dalla stessa Lucy quand’era adolescente, che paragona appunto la vita a un soffio. Un accostamento che fa ancor più riflettere se a recitarla è una persona che ha vissuto così a lungo – è nata nel 1924 – divenendo suo malgrado una testimone preziosa di una delle pagine più buie del Novecento.
Questa non è la prima volta che la storia di Lucy viene raccontata, ci sono già stati infatti un libro e un documentario (usciti rispettivamente nel 2009 e 2011) della scrittrice e film-maker Gabriella Romano, e una sua intervista compare anche nel film Felice chi è diverso del regista Gianni Amelio del 2014. Ma ogni opera è diversa e allora abbiamo chiesto a Botrugno e Coluccini da dove viene l’idea di girare questo film, scoprendo così che è nato per caso da un breve video trovato in rete: era un’intervista a Lucy sulla sua esperienza nel lager. Da questa scintilla iniziale scaturisce il primo incontro con la loro protagonista a Bologna nel novembre 2019, per fare una chiacchierata e conoscersi senza macchine da presa, come in un vero pomeriggio dalla nonna, con tanto di fiori e pasticcini. A breve segue un’intervista-fiume di tre giorni, poi la pandemia si abbatte sulle riprese che si bloccano, ma il desiderio di portare a termine il documentario riesce a prevalere e il risultato è quello che vediamo sullo schermo. Come dice Lucy stessa: «raccontare la mia vita, il campo di concentramento, la mia lotta personale che mi ha fatto diventare la donna che sentivo di essere, i miei amori, i miei affetti e le mie disavventure, non è stato solo una valvola di sfogo. Dopo ogni sessione di ripresa del film capivo che il racconto della mia storia poteva essere d’aiuto non solo a me stessa. Non è per presunzione, ma penso che il racconto della mia vita possa regalare una speranza a tutti coloro che si trovano a lottare per la propria identità e la propria dignità personale, e che possa essere un modello per molti».
Lucy, all’epoca, non aveva ancora iniziato il suo percorso di transizione e faceva parte dell’esercito tedesco. Per questo motivo finì tra i prigionieri politici, avendo disertato dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ecco spiegato perché sulla divisa del campo portava il triangolo rosso, e non quello rosa che contraddistingueva le persone queer internate. In particolare, il Terzo Reich si era accanito contro l’omosessualità maschile condannata dal paragrafo 175 del codice penale tedesco, e secondo alcune stime sarebbero stati almeno 50.000 gli internati gay: un sacrificio ricordato con il termine omocausto.
In un’altra occasione Lucy ci aveva descritto così il suo arrivo a Dachau: «ci marchiarono subito con la creolina sulla testa, sotto le ascelle e in mezzo alle gambe. Molte cose sento il dovere di raccontarle, qualcuna l’ho voluta dimenticare, altre non si possono descrivere. Si poteva morire ogni giorno: per denutrizione, bruciati sui fili dell’alta tensione, col monossido, nei forni, per gli esperimenti genetici o per puro sadismo. […] Non c’era il tempo e neanche la volontà per qualsiasi forma di contatto umano: non parlavi, non ridevi, non pensavi, e quando pensavi, pensavi solo a mangiare e qualche volta a scappare, e dopo qualche mese aspettavi e volevi solo la morte. Lavoravamo per essere uccisi, e alla fine speravi che tutto venisse distrutto».
Nonostante fosse sprofondata in un inferno sulla Terra, Lucy riuscì a resistere e dopo sei mesi di sofferenze arrivò finalmente la liberazione, ma anche qui ce la fece solo per un soffio, come racconta ancora: «mentre stavano per arrivare gli alleati, Hitler ordinò di evacuare il campo o, se fosse tardi, di sparare a tutti. Una pallottola mi colpì alla gamba dopo essere uscita dal petto di un uomo, che mi restò addosso morto per diverse ore. Mi svegliai qualche giorno dopo nell’accampamento americano; non potevo alzarmi e fu la mia fortuna, perché molti feriti, nel vedere tutto quel pane dopo tanta fame, si ingozzarono e morirono subito perché lo stomaco non era più abituato».
Questi ricordi sono terribili e rievocare tanto strazio ha un costo emotivo che possiamo solo tentare d’immaginare, ma Lucy è consapevole dell’importanza della memoria e infatti il documentario si apre con una lettera che riceve da Monaco nel 2019. Contiene l’invito alle celebrazioni che si sarebbero tenute l’anno successivo in occasione del 75° anniversario della liberazione del lager di Dachau: come ogni cinque anni, alla cerimonia partecipano tutte le persone sopravvissute e i liberatori ancora in vita. Per lei questa sarà la quarta visita al campo di concentramento e nonostante l’età molto avanzata decide di tornarc, ma poi tutti gli eventi vengono cancellati a causa del Covid. Ed è a questo punto che i registi e altri suoi amici propongono a Lucy di accompagnarla comunque, anche senza cerimonie ufficiali, in un viaggio intimo e toccante fino alla radice del male.
Subito dopo la guerra, per molti anni, non è stato facile parlare dei lager, le persone sopravvissute non venivano credute se raccontavano la propria storia, anche Lucy l’ha sottolineato più volte nel suo incessante impegno di testimonianza. Oggi molto è cambiato e in occasioni come la Giornata della Memoria tanti sono gli eventi per ricordare il passato, anche quello più doloroso. Secondo i registi, fare film come questo è anche «una forma di responsabilità sociale per preservare la memoria e rinforzarla diffondendo storie come questa. Mantenerne il ricordo è infatti una necessità: del passato bisogna fare tesoro affinché non se ne ripetano gli errori e gli orrori, perché sulla memoria poggiano le fondamenta su cui costruire una società più giusta e inclusiva. In quest’ottica, il messaggio di Lucy è certamente di resistenza, ma raccontato con grande ironia e consapevolezza, l’inestinguibile voglia di vivere malgrado tutto quello che ha passato è un esempio che ci illumina la via. La sua lunga vita è quasi una biografia del secolo scorso e non è solo la storia di una persona trans*, infatti Lucy è stata soldato, deportato, prostituta, madre… e in questa storia ci siamo anche noi, parla a ciascuno portando tutto a un livello più universale: è l’espressione più libera dell’essere umano.»
Per finire, prendiamo a prestito le parole di Primo Levi, scrittore e sopravvissuto ai lager: «meditate che questo è stato». Non dimenticarlo mai è un nostro dovere morale, anche per evitare associazioni a dir poco imbarazzanti fra green pass e dittature nazifasciste. L’esercizio della memoria è dunque anche uno strumento di lotta fondamentale e quella di Lucy è una voce potente che si unisce al coro sempre più esiguo di chi ancora può dare testimonianza diretta di cosa fosse l’orrore dei campi di concentramento.
Immagini tratte dal documentario «C’è un soffio di vita soltanto»
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