«Abbiamo estremo bisogno di una rivoluzione dei costumi. Bisogna che l’inconsapevolezza di fondo sparisca, è necessario che il linguaggio comune si liberi una volta per tutte da qualunque ammiccamento machista». È quanto scrive Claudio Marchisio, famoso ex calciatore della Juventus nel suo memoir Il mio terzo tempo (Chiarelettere, 2020).
Sono molto lontani i tempi in cui intonava «Roma ladrona» in odor di Lega storpiando l’inno di Mameli nella Nazionale italiana di calcio.
Se è vero che, per dirla come Confucio, solo i più saggi e i più stupidi non sfuggono al cambiamento, è stato piuttosto chiaro nel decennio successivo che Marchisio abbia deciso di appartenere alla prima categoria.
L’ex centrocampista, ritiratosi nel 2019 dal calcio professionistico, ha inanellato negli anni decine di dichiarazioni sugli argomenti più sensibili del dibattito politico e sociale italiano: dall’appoggio alla causa curda, alla sensibilizzazione sulla condizione di migranti e rifugiati, battendosi contro il razzismo nello sport e fuori senza dimenticare il tema scottante dell’omofobia nel calcio. Su quest’ultimo e su altri si sofferma ora anche nel suo libro.
Lo sport italiano e il calcio sopra tutti brancolano ancora nel buio machista e omofobo del «Don’t ask, don’t tell» di clintoniana memoria, con punte di violenza verbale e dichiarazioni negazioniste di cui ricordiamo malvolentieri famosi protagonisti (Lippi, Cassano, Belloli, Sarri…).
Ben venga questo ennesimo posizionamento chiaro, per quanto solitario, in assenza di altre voci autorevoli.
Plauso a Marchisio, dunque: il «principino», come veniva chiamato in campo, non ha smesso di andare in tackle.
Immagine di copertina da tuttocampo.it
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