L’EVOLUZIONE DEL “GAY TIPO” NELLE SERIE

Quarantasei per le emittenti in chiaro, settantaquattro per quelle via cavo e sessantaquattro per le piattaforme di streaming. Sono questi i numeri che raccontano i personaggi gay apparsi nelle serie tv trasmesse nei paesi anglofoni durante la stagione 2019/2020, stando a quanto riportato dal report annuale Where We Are on TV redatto da Glaad.

In termini meramente numerici, la “g” è da sempre la più rappresentata tra le lettere della sigla LGBT+, ma è altrettanto indicativo quanto lo spazio di manovra in cui si è mossa per anni sia stato fortemente limitato. 

Che le cause di un appiattimento narrativo delle minoranze siano tra le più disparate, lo suggerivano già e riflessioni di Sterling Brown in Negro Characters as seen by White Authors dell’aprile 1933 o di Patricia Collins, mezzo secolo più tardi, in Black Feminist Toughts sugli stereotipi utilizzati per descrivere la comunità nera. Entrambi sottolineano come l’utilizzo di etichette opprimenti nasca dalla necessità di porre un controllo sul diverso. Qualcosa di simile è accaduto al personaggio gay tipo, che, relegato al ruolo di aiutante o di spalla comica, ha visto a lungo la sua identità limitata al binomio straight passing guy (l’insospettabile) e flamboyant flamingo (lo scheccante).

L’estrema esasperazione e decostruzione di questi tòpoi alla fine degli anni Novanta ha portato alla ribalta personaggi come quelli di Will e Jack nella serie Will & Grace, mentre, per nostra fortuna, prodotti come Queer as Folk, o la trilogia Cucumber/Banana/Tofu più tardi, hanno l’indubbio pregio di aver presentato per la prima volta in una chiave nuova tematiche scomode come l’Hiv, il coming out, il matrimonio egualitario, e di aver affrontato ogni sorta di tabù, dal chemsex al sexworking, lasciando un segno nell’immaginario. 

Sulla scia di questi cult, abbiamo visto sempre più emittenti inserire nei cast principali delle proprie serie personaggi gay ricorrenti, le cui storyline hanno calcato più o meno le loro orme; allo stesso modo è andata anche a sedimentarsi una caratterizzazione etnica ed estetica ben precisa. Se per la prima, riprendendo i dati raccolti da Glaad, possiamo notare un predominio assoluto di personaggi bianchi, con percentuali che vanno dal 48 al 55% a seconda della piattaforma di trasmissione, per la seconda gli standard fisici scontano un’idealizzazione eccessiva.

Su questi temi, la televisione mainstream sembra viaggiare a rilento, laddove le piattaforme di streaming, prima fra tutte Netflix, la fanno da padrone. 

La società fondata da Reed Hastings e Marc Randolph, infatti, fa della narrazione non convenzionale delle minoranze una delle fonti del suo successo mediatico e di guadagno e, pur se con una certa nota di amarezza, le va riconosciuto il pregio di produrre contenuti innovativi, portando alla luce argomenti spesso taciuti come nel caso della miniserie Special, rilasciata nell’aprile dello scorso anno, in cui il protagonista è per la prima volta un ragazzo gay con una paralisi cerebrale. 

Che l’attuale immaginario del gay tipo risulti, oggi, ancora fortemente incompleto è certamente vero, tuttavia questo non ne svilisce la rappresentazione.

Al pubblico va il compito di rivendicare ciò che ancora non viene rappresentato, dove al fianco dello scheccante appassionato di Cher e Madonna e al culturista insospettabile, c’è anche chi conclude il proprio coming out con l’amica dicendo «mi piace il vino, non l’etichetta» (citazione da Schitt’s Creek, ndr).

Pubblicato sul numero 55 della Falla, maggio 2020

Immagine di copertina: bookandfilmglobe.com,

immagine nel testo: ciakclub.it