Le donne dello sport italiano e il peccato originale della legge n. 91/1981
Questo non è il Vietnam, è l’Italia, ci sono delle regole! E sono molto semplici: se sei donna hai meno diritti di un uomo; se sei una donna e fai sport, di diritti ne hai ancora meno. Già, perché al contrario dei colleghi uomini le donne che praticano sport, anche ad alto livello, per lo Stato italiano sono dilettanti. Federica Pellegrini? Dilettante. Sara Gama? Dilettante. La nostra nazionale di calcio femminile è composta da dilettanti. Una situazione analoga nel calcio maschile ci fa ridere. Lo prendiamo come un qualcosa di colore. In realtà da ridere c’è poco. Perché per le donne dello sport italiano si parla di un “dilettantismo imposto” ex lege, perché nessuno si sognerebbe mai di scrivere, pensare o contestare che le atlete succitate non siano da considerarsi professioniste a tutti gli effetti. Eppure…
Chi è un atleta professionista per lo Stato italiano? Per l’articolo 2 della legge 91 del 1981 “sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.
Tutto giusto. Tutto sacrosanto. Lo sport può essere una professione e come tale deve essere considerato. Solo se sei uomo però. C’è quindi una contrapposizione tra “professionismo di fatto”, quello degli uomini, e “dilettantismo imposto”. Con tutte le complicazioni del caso, soprattutto in termini di diritti negati. Nessuna garanzia assicurativa o contrattuale: la copertura per infortuni e visite mediche non è garantita. Di rimborsi spese nemmeno l’ombra (sui premi nettamente inferiori rispetto a quelli degli uomini è meglio sorvolare). Certo, le società e le atlete possono stipulare assicurazioni private, trovare escamotage, ma il vulnus rimane.
Se lo sport è il tuo mestiere come un lavoro deve essere retribuito. Invece no, perché il dilettantismo imposto della legge estende il diritto di periodica retribuzione solamente agli uomini. A fine carriera non esiste Tfr e ovviamente che non si pensi di poter accedere al sistema previdenziale e di poter accumulare contributi. Può sembrare superfluo, ma un’atleta in Italia non ha controllo nemmeno del suo diritto di immagine. Le donne dello sport, in Italia, sono di serie Z agli occhi di uno Stato che nega loro quei basilari diritti che vengono riconosciuti agli uomini e a tutti i lavoratori. Con conseguenze immaginabili.
L’unica alternativa è di entrare a far parte di un gruppo sportivo militare.
Fino a qualche mese fa una gravidanza avrebbe comportato la brusca fine di una carriera. Almeno da questo punto di vista qualcosa è cambiato, dato che con la Legge finanziaria 2018 è stato introdotto un fondo maternità per le atlete. Qualcuno gioisce del passo: piccolo, ma pur sempre in avanti. La strada per l’uguaglianza di genere nei contratti sportivi professionistici in Italia però sembra ancora lunga. Di questa battaglia si è fatta carico l’Associazione Assist, che da anni si spende per cambiare lo status quo. Insomma, come ha intitolato Gloria Riva su D di Repubblica qualche mese fa, in Italia se lei vince lo fa per sport.
Nda: questo articolo è stato scritto a poche ore dalla vittoria di Pellegrini nei duecento dorso agli Assoluti di Riccione. La conclusione, quindi, non può che essere il titolo che mai nessun giornale potrà pubblicare: “Grande Fede, fottuta dilettante!”
pubblicato sul numero 35 della Falla – maggio 2018
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