Siamo tutte alle prese con la nostra narrazione. Una che ci spieghi perché quella che ci eravamo costruite, quella della pace – chiaramente intesa in pieno privilegio geografico ed economico come europea -, è crollata il 24 febbraio. Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin si apre un nuovo capitolo su scala mondiale. Non solo è tornata la guerra in Europa, ma la discussione sulla genesi del conflitto sta già dimostrando quanto si sia inclini alle semplificazioni.
Se da un lato si condanna più o meno unanimemente Putin – certo, se non si è cinesi, pakistani o indiani astenutisi sulle risoluzioni delle Nazioni Unite – dall’altra è riemersa la caccia al colpevole targato Usa. È il noto sentimento antiamericano, non del tutto deprecabile, che dilaga all’occorrenza in buona parte dell’opinione pubblica europea e mondiale: Intervenire in una guerra è imperialismo – e in effetti è così – ma se si opera la ritirata non si fa molto meglio, e via dicendo. Non sfugge a nessuno che i vari discorsi sull’arroganza della Nato avevano in realtà Biden come soggetto sottinteso. Dando per scontato che la paura russa di una Nato ai confini sia un pretesto – Repubbliche baltiche e Norvegia stanno lì da anni – lo scenario appare complicato. Non sappiamo cosa muova davvero Putin o quali siano i reali obiettivi, certo è che non solo la Russia appare restia a chiudere il capitolo dell’Unione Sovietica, ma che ci siano interessi economici, oltre che politici, sul tavolo. Può non essere secondario il fatto che l’Ue abbia dichiarato un piano di indipendenza energetica dalle fonti fossili che dovrebbe addirittura realizzarsi nel 2035: a quella data si dovrà arrivare in qualche modo ma la Russia perderà sul lungo periodo il principale mercato della fonte primaria del Pil del Paese. Per dirne una, col gas Putin finanzia anche il sistema pensionistico.
Oltre le ragioni possibili rimane un fatto. L’effetto di questa invasione ha creato una frattura nel cuore di un mondo, quello occidentale direbbe qualcuno, che non si identifica solo con la Nato. Un sentimento comune ha unito l’opinione pubblica, prima ancora delle istituzioni, nella difesa di valori che si ritengono non sacrificabili. Certo, forse ci dimenticheremo anche di questo come ci siamo scordate della Georgia, della Crimea, dell’Afghanistan, ma la portata simbolica di questa prossimità potrebbe aver scosso la coscienza collettiva a un livello più profondo. Quello che pare ovvio, se non altro per noi che facciamo parte della comunità LGBTQI+ e femminista, è che Putin vada in qualche modo fermato. Se l’Ucraina dovesse cadere, sia in chiave di annessione che di governo fantoccio, i diritti civili subirebbero un salto indietro di decenni. Manifestiamo per la pace – qui dove possiamo, giacché in Russia siamo già a oltre 6000 arresti – ma non dimentichiamoci che l’interlocutore non conosce quel linguaggio, non condivide la nostra narrazione, e che le nostre sorelle in Ucraina sono già in guerra, e se crediamo che la loro lotta sia anche la nostra lotta, allora dobbiamo riconoscere che qualcosa va fatto. Che non possiamo abbandonare Kyiv.
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