«Chi non lavora non fa l’amore», cantavano Adriano Celentano e Claudia Mori sul palco del Festival di Sanremo nel 1970, conquistando kermesse e classifica. Una canzone che, in concomitanza con la stagione calda delle manifestazioni e degli scioperi, ritraeva uno scenario milanese tra il reazionario e il populista in cui la moglie casalinga minacciava un contro-sciopero se il marito non fosse tornato al lavoro per portare lo stipendio a casa. 

Se negli anni ‘70 la contrapposizione era tra chi chiamava il padrone “signore” e chi a quel padrone si contrapponeva collettivamente, oggi la situazione è sempre più drammatica: il capitalismo ormai pervasivo ci ha frammentate, ci costringe a cercare più padroni perché uno non ci paga abbastanza, il tempo libero è diventato tempo produttivo. A farne le spese sono i soggetti già marginalizzati, tra cui le persone LGBTQIA+, quelle razzializzate e senza cittadinanza, che non hanno gli stessi diritti civili e quindi hanno più difficoltà ad accedere al mondo del lavoro, ad avere salari degni e a usufruire di ammortizzatori sociali. Per non parlare del gender gap, che in Italia si attesta sul 20% per quanto riguarda la retribuzione.

Nel 2025 a quel ritornello si potrebbe aggiungere «Chi lavora non fa l’amore», se il lavoro – o i lavori – lo si ha. In tempi di precarietà e instabilità, di tipologie che non andrò a elencare perché altrimenti mi dilungherei troppo, trovare il tempo per coltivare i propri desideri sembra sempre più complesso. Scheduliamo qualsiasi cosa, come il tempo del piacere, rifiutando quello della noia per paura di non riuscire a fare tutto: perché arrivare a fine mese è un miraggio; perché tenersi una casa, spesso in condivisione con persone che, se va bene, diventano s/famiglia e, se va male, sono luoghi di solitudini, ricatti, violenze; perché una casa sempre più spesso non si riesce a trovarla, come a Bologna.

E in questo scenario, da Terza Guerra Mondiale e in cui il governo Meloni continua a millantare nuovi posti di lavoro che non ci sono, la strada da seguire è quella della mobilitazione e delle alleanze, dei diritti sociali e dei diritti civili che non possono essere separati. Delle piazze e delle strade, che le frocie conoscono bene, che chi lavora conosce bene. Per questo dobbiamo essere al fianco di chi lavora alla Perla e alla ex Saga Coffee, nei musei e nelle biblioteche di Bologna, capaci per la prima volta di unire le sigle sindacali per protestare contro i mancati investimenti sulla cultura, nella sanità pubblica, ormai smantellata. Per questo è necessario andare a votare l’8 e il 9 giugno per i cinque quesiti referendari su cui potranno esprimersi anche le persone fuorisede: quattro sui temi del lavoro per ripristinare tutele ridotte nei decenni e uno sulla cittadinanza. Per questo le manifestazioni del movimento LGBTQIA+, a partire da quella del 17 maggio a Roma e proseguendo con i pride in partenza, devono tenere insieme corpi e salari, istanze lavorative e identitarie, non perdendo di vista le ingiustizie e i soprusi imposti dal capitalismo e dall’eterocispatriarcato. Perché noi vogliamo il pane e le rose.