di Vincenzo Branà
In molte case, dalle nostre parti, a Natale si allestisce il presepe: c’è chi lo fa perché ci crede, chi per passione, per tradizione o per vezzo. Così ogni anno si moltiplicano i plastici di Betlemme, tra muschio, palme e capanne. Da Betlemme, per raggiungere Aleppo, si prende la via di Damasco, si varca il confine tra Siria e Giordania, tenendo la sagoma di Cipro disegnata all’orizzonte. Se invece volessimo portare Aleppo a casa nostra, così come portiamo Betlemme ogni anno, anzi proprio partendo da quella piccola Betlemme ai piedi dell’albero, ci basterebbe prendere coraggio e camminare su tutto il presepe, facendo attenzione a calpestare ogni capanna, frantumando il gesso e il legno, travolgendo pastori e lavandaie. Questa è la devastazione, questo è la rappresentazione, cinica ma efficace, dello sterminio di Aleppo. E mentre per pietà teniamo in salvo il bambinello, ricordiamoci di ciò che l’Unicef ci dice, cioè che sono più di quattromila i bambini intrappolati tra le macerie della città siriana, nella morsa di quella tragica guerra.
Già, la guerra: il 27 gennaio celebriamo il Giorno della Memoria, quello dedicato al ricordo delle vittime dello sterminio nazifascista e che celebra il momento in cui furono aperti i cancelli di Auschwitz, restituendo la libertà a migliaia di prigionieri esanimi e mostrando al mondo montagne di cadaveri. Negli anni che seguirono la seconda guerra mondiale si tennero due importanti processi, a Norimberga e a Tokyo, per giudicare gli autori e i mandanti di quello sterminio. La domanda che quei tribunali dovettero porsi non fu solo quale fosse la pena più giusta per quegli assassini, ma anche quale sentenza avrebbe impedito il reiterarsi di quell’orrore. E si chiesero anche se la guerra fosse estirpabile dal mondo, o al contrario in qualche modo insita nella natura stessa del genere umano, perciò ineliminabile. Tutti quesiti evidentemente ancora aperti e che rappresentano per noi un grande fallimento. Perché non abbiamo interrotto quegli orrori, abbiamo soltanto imparato a ignorarli, o addirittura a pensare che in qualche modo tutto questo sia normale.
pubblicato sul numero 21 della Falla – gennaio 2017
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