Finalmente abbiamo un Dottore queer, e l’adolescente whovian che è in me piange ed esulta: questa nuova stagione di Doctor Who è per noi frocie.
Ncuti Gatwa, che chiunque abbia un abbonamento a Netflix conoscerà come l’amico gay del protagonista di Sex Education, è il Quattordicesimo Dottore, e inaugura un nuovo ciclo di stagioni, dopo l’Old Who del 1963 e il New Who del 2005. Questo New New Who segna una cesura con il passato dopo un emozionante commiato negli ultimi speciali di Natale a David Tennant – forse il dottore più iconico della seconda era – cambiando un po’ le regole in gioco nei viaggi del tempo e aprendosi a una dimensione più esoterica, che forza coraggiosamente i confini dello sci-fi. Niente di radicalmente nuovo, in realtà, perché questi villain di natura pseudo-mistica provengono comunque dalle trame intricate del passato.
Gatwa esordisce in uno speciale di Natale musical dalle vibe un po’ disneyane, in cui compare allo sguardo della nuova companion Ruby Sunday ballando in un locale in stile Euphoria. Ma è anche il primo Dottore nero, e il tema del razzismo emerge in maniera brillante nell’episodio Il pianeta dei mostri, che si finge una critica blanda alle nuove generazioni dipendenti dal cellulare per rivelare sul finale una società suprematista bianca che pur di non seguire il Dottore preferisce l’estinzione. In Nessuno è quel che sembra ci godiamo un tenero e un po’ sciocco flirt gay tra il Dottore e Rogue (che come space cowboy assomiglia un po’ troppo a Han Solo). L’episodio Maestro ha poi come guest star la queen Jinkx Monsoon, che interpreta l’omonimə personaggə non binariə (con tanto di appunto sui pronomi) ma con una recitazione iconicamente drag.
Personnaggə LGBTQIA+ non sono in realtà nuovə alla serie. Ricordiamo Jack Harkness, pansessuale di quella logica che nel futuro intergalattico non dovrebbe aver più senso l’attrazione per un solo genere, che ci prova scherzosamente con il Dottore e che nello spin-off Torchwood spargeva le tanto agognate briciole di affetto omosessuale con il fedele agente segreto Ianto Jones; una storia d’amore gay che per i canoni degli anni 2000 doveva per forza finire con la morte tragica di uno dei due. O la domestica della Londra vittoriana Jenny Flint e la sua padrona/moglie rettiliana, Madame Vastra. E in realtà anche con la tredicesima Dottora – prima reincarnazione donna, che ha chiuso il New Who con una sceneggiatura purtroppo dimenticabilissima – sembra esserci un accenno di interesse saffico con la companion Yasmin Khan, ma che ricade ancora in quella classica ambiguità tra lesbiche e migliori amiche.
Doctor Who ha sempre interpretato lo spirito del tempo, almeno quello britannico, tra la middle class e la periferia londinese, sempre di qualche sensibile passo avanti rispetto al progresso degli anni e della società. Per questo è così importante che il Dottore sia egli stesso queer, portando finalmente le tematiche LGBTQIA+ in primo piano e non sullo sfondo. Questa nuova stagione sembra così segnare definitivamente la fine di serie tv affini che ammiccavano spesso, ma mai esplicitamente, all’omoerotismo tra i protagonismi maschili, come Holmes e Watson in Sherlock, o in Merlin tra Arthur e il mago – no, decisamente non era tutto nella testa di noi ragazzine produttrici e consumatrici di fanfiction, o giovani checche agognanti di rappresentazione.
Una stagione breve che rivela il suo interesse grazie anche al ritorno dello storico sceneggiatore Russell T Davies e ottime scelte di scenografia e costumi – in primis per gli Abbey Road Studios anni ’60 di Maestro -, che ha chiaramente fatto piovere accuse di wokeness.
Dall’uomo maturo e affascinante che ama accompagnarsi con ragazze che lo ammirano e più o meno velatamente amano alla follia – certo con diverse e felicissime eccezioni – ora lo spazio-tempo è protetto dal legame più potente che ci sia nell’universo: quello tra un finocchio e la sua frociarola.
Immagine in evidenza: xtracult.it
Perseguitaci