Negli ultimi tempi, la ricorrenza in cui questo articolo verrà pubblicato è per me un giorno particolarmente significativo, quasi iniziatico. Il 3 dicembre si celebra la giornata internazionale delle persone con disabilità per sensibilizzare l’opinione pubblica e aumentare la consapevolezza sull’importanza dei diritti e del benessere delle persone disabili e per rinnovare l’impegno collettivo a garantirne la dignità.
Quando si parla di benessere si fa riferimento in generale al livello di qualità della vita, che per le persone disabili è statisticamente molto inferiore rispetto a chi non ha una disabilità, in quanto a partecipazione alla sfera politica, sociale, economica e culturale, alla fruizione di diritti e vantaggi che permettono di sviluppare facilmente le proprie potenzialità umane e condurre un’esistenza serena e soddisfatta.
Leggendo la realtà attraverso i numeri (Istat, ndr), 9 persone disabili su 10 affermano di non avere la possibilità di partecipare alla vita culturale e sociale pubblica come chiunque altro, quindi non prendono parte a eventi culturali, sportivi, né vanno al cinema, a teatro, a concerti e non praticano uno sport. L’80% non è soddisfatto del proprio tempo libero, forse perché non ne ha. Il 60% non è soddisfatto o per niente soddisfatto delle relazioni amicali mentre il 36% afferma di essere completamente solo.
Quando poi si guarda all’intersezione fra disabilità e comunità LGBTQ+ le cose si complicano maggiormente. L’influenza dei due aspetti identitari sulla quotidianità e sulle relazioni familiari, lavorative e amicali è molto evidente, soprattutto per le persone più ai margini. I sistemi oppressivi eteronormativo e abilista si sovrappongono in un duplice condizionamento negativo della qualità della vita delle persone disabili LGBTQ+ con un moltiplicarsi di rischi di invisibilità, violenza e disparità di trattamento.
A tutti gli ostacoli di chi non rientra nei criteri di conformità di un sistema eteronormativo binario escludente, si sommano le difficoltà di chi convive con una compromissione fisica, sensoriale, intellettiva o sociale in un quadro che non riconosce nella disabilità una condizione umana dignitosa. La mancanza di diritti e tutele, i rischi di ostilità in famiglia e di discriminazione nei contesti pubblici, le difficoltà nel tessere relazioni sane e paritarie, di fare coming out e di vivere serenamente e con spensieratezza la propria identità si aggiungono alle difficoltà di chi ha una disabilità in quanto a mancanza di autonomia, indipendenza e autodeterminazione, con conseguenze sulla capacità di tessere relazioni e di vivere una vita autonoma e soddisfacente. Senza poi contare l’onere di convivere quotidianamente con stereotipi e pregiudizi svalutanti che colpiscono entrambe le identità con continue microaggressioni.
Secondo le ultime – rare – ricerche italiane in materia, la serenità delle persone disabili LGBTQ+ è soprattutto a rischio nei contesti in cui è minacciata la loro autonomia, come a causa della dipendenza dalla famiglia o durante il loro percorso di emancipazione per una vita indipendente. Secondo la ricerca Abili di cuore del 2007 di Priscilla Berardi per Arcigay, «la compresenza di omosessualità e disabilità (la ricerca è limitata a un campione di 25 persone omosessuali cisgender di cui sole 3 donne) impone difficoltà pratiche e relazionali in tutti gli ambiti della vita quotidiana». In particolare, il rapporto con la famiglia rispetto alla disabilità e il grado di conoscenza e accettazione dell’omosessualità influenzano fortemente l’autonomia e l’accettazione di sé da parte delle persone intervistate. Spesso infatti la dipendenza fisica ed economica frenano dal dichiararsi e dal vivere serenamente la propria sessualità. Le amicizie si rivelano il contesto di maggiore accoglienza nei confronti del coming out dell’omosessualità. Alcunə intervistatə devono inoltre affrontare un doppio coming out: quello dell’omosessualità e quello della disabilità quando questa non è evidente, e si devono spesso scontrare con un duplice atteggiamento rifiutante.
Dove una persona riesce a essere autonoma, il problema di accettazione continua comunque a causa di stereotipi e pregiudizi. In molti lamentano discriminazione, disinteresse e distacco a causa della propria disabilità dal mondo omosessuale, oltre che una generica mancanza di occasioni di incontro per vivere la propria sessualità e affettività. La maggior parte delle persone intervistate ha lamentato discriminazione, disinteresse e distacco a causa della propria disabilità da parte del mondo omosessuale, che viene percepito in perenne «ricerca della perfezione estetica». Moltә lamentano solitudine, tristezza e di non essere presә in considerazione per incontri occasionali.
«La ricerca di partner affettivi e sessuali è spesso fonte di delusione e frustrazione a causa del rifiuto nei confronti della disabilità. Lo stesso accesso a locali di incontro è spesso precluso a causa di barriere fisiche e ambientali. A fronte di difficoltà oggettive e soggettive nello sperimentare la propria sessualità e nel formare una relazione, vi sono tuttavia casi in cui l’intervistato vive o ha vissuto esperienze di coppia, affettive e sessuali soddisfacenti. Le donne sembrano essere meno invalidate dalla disabilità nella ricerca di una partner». Certo però le possibilità di sperimentare la propria corporeità, erotismo e affettività, e in generale la ricerca del piacere, è estremamente difficile, in particolare per chi ha poca o nessuna autonomia e dipende fisicamente ed economicamente dalla famiglia.
Secondo quanto emerge dalla ricerca sulla multidiscriminazione del 2020 della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) nella ricerca di un’abitazione o di un lavoro, aspetti cruciali per lo sviluppo di percorsi di vita autonomi, vengono vissute discriminazioni molto concrete e penalizzanti per la vita delle persone LGBTQ+ disabili. Il 30% dichiara infatti di aver provato disagio nella ricerca di un’abitazione o di un lavoro. Laddove una persona riesca a essere autonoma, il problema di accettazione continua comunque a causa di stereotipi e pregiudizi. Solo 1 persona su 10 afferma di non aver mai avuto esperienza di disparità di trattamento e fino al 70% di persone disabili LGBTQ+ dichiara di aver provato l’esperienza di ostilità immotivata.
Non è purtroppo raro provare episodi di discriminazione ed esclusione, più frequenti nell’età giovanile così come a scuola, nel momento in cui si è più vulnerabili, soprattutto se si sta elaborando la propria identità, affettività e sessualità. Capita di provare solitudine e sconforto, di non avere persone con cui condividere la propria frustrazione e di non sapere come reagire. A causa della sovrapposizione di più discriminazioni infatti è ancora più alto il rischio di emarginazione anche a causa della mancanza di luoghi protetti dove sperimentare rispetto e riconoscimento.
In generale il disagio è soprattutto causato dai comportamenti delle altre persone mentre la dimensione dell’accessibilità cade in secondo piano. Solo 1 persona su 10 afferma di non essersi mai sentita a disagio, che se per il 35% deriva dalle barriere architettoniche, per l’80% viene dal comportamento altrui. La sensazione di disagio si presenta in assenza di reciprocità: indifferenza e sensazione di rifiuto.
Sono poche le testimonianze che ci arrivano direttamente da persone disabili LGBTQ+, soprattutto da chi ha compromissioni particolarmente invalidanti; sono invece del tutto assenti testimonianze da parte di chi ha disabilità intellettive.
Quello che più mi ha colpito dalle testimonianze in prima persona è la normalizzazione del senso di difficoltà e rinuncia, quasi di rassegnazione. Mara, persona cieca e trans*, nella ricerca della FISH dice che ha dovuto mettere da parte la propria disforia di genere in quanto meno prioritaria rispetto alla disabilità sensoriale e la ricerca di autonomia, ritardando il percorso di transizione con tutte le conseguenze che questo comporta. «La cecità ha amplificato tutte le mie paure: la paura della solitudine, di non essere capita, di essere emarginata, di essere considerata sbagliata». Nora, altra donna trans* con cecità acquisita, denuncia la mancanza di abitudine e la difficoltà nell’accompagnare la persona cieca nel percorso di transizione. La mancanza di disponibilità da parte di alcunә professionistә a rendere il percorso più accessibile dal punto di vista della mobilità si unisce all’impreparazione del mondo associativo ad accogliere una persona con più differenze. Con la conseguenza che per Nora il percorso di transizione è stato soddisfacente solo grazie all’appoggio della famiglia.
Guido, uomo quarantenne omosessuale con patologia neurologica degenerativa acquisita a 16 anni che provoca difficoltà nella parola e nel cammino, denuncia anch’esso la mancanza di empatia da parte delle associazioni LGBTQ+ di riferimento, che non prevedono la disabilità e reputano l’accessibilità della sede poco importante. Così come Mara ha dovuto mettere da parte la propria disforia, Guido riporta che l’omosessualità non è stata subito accettata, ma col subentrare della malattia è stata presto metabolizzata e messa in secondo piano, confermando la priorità della corporeità e della salute sulla propria identità sessuale e testimoniando la preponderanza della disabilità sul senso di vulnerabilità: «Come omosessuale puoi difenderti di fronte a chi discrimina. Come disabile, invece, in un certo senso sei nudo».
Tutte le testimonianze sono d’accordo però sull’importanza del confronto fra pari per la costruzione della propria consapevolezza e dignità, oltre che per il mutuo supporto da parte di quelle che spesso diventano vere amicizie, soprattutto favorita dalla rete e dall’uso delle chat e dei social. Vito, 25 anni, nato con paralisi cerebrale e poi scopertosi non-binary, racconta che il suo incontro con un gruppo di persone LGBTQ+ con disabilità contribuisce a far crescere la sua autostima e consapevolezza in merito alle discriminazioni possibili. Allo stesso modo Ruggero, uomo cisgender omosessuale diventato cieco dopo i quarant’anni, ritrovatosi poi solo oltre i cinquanta, dice che attraverso un’associazione di persone cieche trova il contatto di un gruppo di auto-mutuo-aiuto rivolto alle persone con disabilità LGBTQ+, dove racconta di «aver trovato amici su cui poter contare, per una parola, un incoraggiamento, una pacca sulla spalla o un sorriso».
Queste testimonianze, unite ai dati, alla mia esperienza personale e al confronto continuo con miei compagni e compagne queer, disabili e neurodivergenti confermano quanto sia fondamentale l’importanza del contesto per sentirsi accettatə e accettabili, parte di un gruppo o più in generale di una comunità. Confermano quanto sia determinante la presenza di luoghi sicuri in cui potersi riconoscere, sentirsi apprezzatə e supportatə. È quello che l’associazionismo dovrebbe assumere come dogma assoluto: l’urgenza di decostruire le oppressioni di ogni tipo e di diventare accessibili per essere luoghi sicuri per chiunque.
L’importanza di non sentirsi solә, di essere vistә e trattatә per quello che si è.
A tutte le persone disabili, neurodivergenti, malate e fragili, alle persone disagiate, storpie, pazze e disadattate: non siete sole. Ci sono pezzi di comunità intorno a voi. Cerchiamoci, supportiamoci, rivendichiamo insieme la nostra dignità e pretendiamo l’inclusione che meritiamo. Non siamo sole.
Perseguitaci