Tra accuse di blasfemia ed eresia, lo scorso novembre, presso la cappella del Trinity College, il ricercatore Joshua Heath ha proposto un discorso che ha destato non poco scalpore: secondo quanto riportato dalla sconvolta stampa inglese, analizzando alcune opere d’arte, Heath avrebbe affermato che Gesù Cristo avrebbe avuto un corpo trans.
Il discorso di Heath, che si è concentrato sull’analisi di alcune opere medievali, rinascimentali e anche più moderne, aveva in realtà lo scopo di stimolare un dibattito sulle possibili interpretazioni e rappresentazioni del genere di Cristo. Il tema non è del tutto nuovo allə studiosə che si occupano di Cristianesimo: altrə storicə prima di Heath avevano notato come nella letteratura religiosa cristiana, già dai suoi primi secoli, il personaggio di Cristo non solo non incarnasse i tipici canoni maschili dell’epoca, ma talvolta apparisse anche attraverso un linguaggio specificamente usato, a quei tempi, per le donne. Da una parte infatti, troviamo in Luca (13, 34) l’immagine di un Cristo che si prende cura «come una chioccia i suoi pulcini», in riferimento all’attenzione materna, più volte richiamata nei testi, che Cristo esercita verso lǝ suǝ discepolǝ; dall’altra, invece, nell’Apocalisse di Giovanni (1, 13), troviamo un riferimento relativo al suo corpo – in particolare al suo seno – per cui viene utilizzata la parola μαστός (mastos): termine difficilmente usato per riferirsi agli uomini, soprattutto nella Bibbia, in cui per gli uomini viene utilizzato esclusivamente il termine στῆθος (stethos).
Nutrita da questi segnali presenti nei vangeli canonici – e molti altri se ne possono trovare in quelli apocrifi – , la mistica del XII secolo, come sottolinea la storica Caroline Walker Bynum, delinea sempre più un immaginario in cui Cristo non ha solo caratteri materni, ma è esso stesso vera e propria madre: Caterina da Siena, Ildegarda di Bingen, Elisabetta di Shonau sono solo alcune delle sante che si rivolgono a Cristo in questi termini, mentre Giuliana di Norwich nella sua opera scrive più volte che «Gesù è la nostra vera Madre». Questo tipo di mistica si risolve soprattutto in una percezione molto fisica della femminilità di Cristo: tra i fenomeni riportati nei loro testi vi è ad esempio quello di essere allattate dal seno di Cristo o ancora di voler tornare nel suo grembo, passando attraverso la ferita al costato.
Ed è proprio la ferita al costato a essere al centro di molte rappresentazioni degne di attenzione, per quanto riguarda il genere e il corpo di Cristo: dal XII secolo in poi, le vulvae Christi, (lett. vulve di Cristo) cominciano infatti ad apparire e riempire i salteri e i libri di preghiera, rappresentando sì la ferita al costato, ma assumendo tuttavia una forma molto simile a quella di una vulva. Uno tra gli esempi più noti è contenuto all’interno del Libro di Preghiere di Bonne di Lussemburgo, risalente al 1345. Non è la semplice somiglianza a caratterizzare queste rappresentazioni: la ferita talvolta è riprodotta mentre sanguina o mentre emette liquidi chiari (interpretati come l’acqua del battesimo), ma anche mentre partorisce la Chiesa personificata.
Cristo non rappresenta quindi soltanto un ideale materno e di cura. Sin dai primi secoli, viene talvolta rappresentato con un corpo che assume dei caratteri che solo nel tempo sono stati poi percepiti come intrinsecamente femminili: vale la pena indagare in che modo questi caratteri, che trovavano spazio tanto nelle pale d’altare quanto nei testi sacri e nei libri di preghiera, contribuissero a costruire un’immagine di Cristo degna di culto piuttosto che di scandalo.
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