di Laura Bortolotti e Arianna Consumati
in collaborazione con Lesbiche Bologna
«Quando mia figlia mi ha confidato che le piaceva una sua compagna di classe ho provato panico, ma anche un po’ di invidia. Mia figlia è lesbica, o bisessuale: parole indicibili, che fanno paura, e che in passato avevo negato anche a me stessa. Ho provato panico per la diversità che queste parole incarnano, invidia per il suo coraggio di pronunciarle a soli 13 anni.
Quell’anno io e suo padre l’abbiamo accompagnata al suo primo Pride, abbiamo conosciuto la sua prima ragazza e condiviso la sua prima delusione. Le abbiamo regalato la nostra vecchia bandiera a strisce, le abbiamo comprato i suoi primi anfibi e l’orecchino con i due simboli del femminile incrociati. Poi lei ci ha superati. In terza media ha fatto coming out in classe, si è colorata i capelli, si è disegnata simboli sul corpo e ha sfilato alle parate di diverse città, ha conosciuto i colori di quell’arcobaleno che su di me avevano sempre esercitato attrazione e paura. È stata lei a insegnarmi che ogni giorno del mese di giugno celebra una diversa identità non conforme, a spiegarmi il significato di pansessuale e di gender fluid e di come sia importante usare sempre i pronomi giusti. Lei mi ha fatto scoprire che esistono molte più lettere e molte più bandiere e che è anche possibile cambiare. Sono passati quattro anni, oggi mia figlia si definisce queer, sta con un ragazzo, tra i suoi amici più cari ci sono una ragazza lesbica, un ragazzo trans F to M, una ragazza eterosessuale. Sono bellissim* quando sono tutt* assieme, vivono con disinvoltura le loro “diversità”, non le considerano nemmeno tali. Per loro la legge Zan, che tanto spaventa alcuni adulti, è già un dato di fatto.
Due anni dopo il coming out di mia figlia, io ho fatto il mio. Ho accettato quella parte di me che avevo negato per tanti anni. Ero lesbica, o bisessuale. Parole indicibili, che facevano paura, ma ora non più, e di questo devo ringraziare soprattutto lei».
«Quando ho detto a mia madre come mi sentivo veramente riguardo alla mia sessualità ero spaventata di come avrebbe potuto reagire. Un mio carissimo amico aveva appena fatto coming out come ragazzo trans ed ero sicura che avrebbe visto il mio come un gesto di emulazione e non avrebbe dato peso alla cosa; invece mi ha sorpreso, dicendo che anche lei si sentiva in parte come me: mi ha raccontato del periodo in cui frequentava un gruppo di ragazze lesbiche, mi ha fatto vedere vecchie foto di questa sua compagnia e io non potevo non pensare a quanto fossi fortunata ad avere proprio lei come mamma. Poi ho cominciato a crescere nella mia identità, a sperimentare e giocare con qualcosa che ormai avevo accettato e che sentivo mio… ho avuto le mie prime cotte che però, a differenza di quelle delle mie amiche di scuola, non erano per ragazzi; mi sono tagliata i capelli, vestita da maschio, ho sfilato in parate di diverse città, insomma stavo passando un periodo magnifico nel conoscermi profondamente.
Poi la mamma ha fatto coming out. All’improvviso ho sentito rompersi quell’equilibrio che da tempo era diventato la mia normalità. Ho visto le mie scelte, la mia espressione di genere, il mio essere così aperta sulla mia sessualità come tanti piccoli tasselli che avevano portato alla separazione dei miei genitori. Mi sentivo responsabile per ogni brutto momento, ogni litigata, ogni pianto e ogni urlo. Sono arrivata a non sopportarmi più e così ho scaricato la colpa sulla mamma. La stessa mamma che mi aveva accettato e supportato attraverso ogni mia decisione, la stessa mamma di cui mi vantavo tanto e che tutti i miei amici queer invidiavano, la stessa mamma che io in quel momento non stavo accettando. Mi ci è voluto tempo e il suo aiuto per capire il mio errore. Ora voglio bene a mia madre come a nessun altro, è di nuovo il mio posto sicuro e per questo devo ringraziare soprattutto lei».
Nel rivelare la nostra identità o il nostro orientamento sessuale, da una generazione all’altra possono cambiare le parole, i tempi, i gesti; ma le paure rimangono le stesse: la paura di non essere accettate, la paura di causare dolore in chi ci vuole bene, la paura di deludere. Quando questo confronto avviene tra genitori e figl*, quando viene intaccata la consuetudine dei ruoli a cui siamo abituat*, è facile che si possano aprire fratture insanabili; le dinamiche si rompono, la vicinanza può trasformarsi in distanza. Perché se è difficile accettare chi è diverso da noi, a volte è ancora più difficile accettare chi ci è troppo simile. Ci si sente responsabili («mia figlia è diventata lesbica perché lo sono anch’io?», «i miei genitori si sono separati a causa del mio coming out?») oppure si teme di non essere pres* sul serio, sminuit* o tacciat* di emulazione. Ma con il tempo le stesse fratture si possono ricomporre, in modo diverso e inaspettato, portando a un equilibrio nuovo, fatto di amore, solidarietà e reciproco sostegno.
A tutte le madri di ragazze lesbiche/trans/queer, a tutte le figlie di donne che scoprono una nuova identità o un nuovo orientamento, auguriamo che questo nostro racconto possa essere di aiuto e incoraggiamento.
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