L’APPROVAZIONE DELL’ARTICOLO 33 DELLA SALÁTATÖRVÉNY E COSA COMPORTA
Il parlamento ungherese ha votato a favore della “legge insalata” ieri, 19 maggio, con 133 voti favorevoli, 57 contrari e 4 astenuti.
Legge con una storia molto veloce: lo scorso 31 marzo, nientemeno che in occasione della Giornata mondiale della visibilità trans, il vice primo ministro ungherese Zsolt Semjén (leader di Kdnp, la compagine democristiana coalizzata con Fidesz, il partito co-fondato e guidato da Viktor Orbán) ha presentato un nuovo disegno di legge che, tra le tante cose, rischiava di invisibilizzare ulteriormente le persone trans del Paese, perché aboliva il diritto al cambio di nome creando un nuovo termine: il “sesso di nascita”.
Definito come «il genere basato sui caratteri sessuali primari e sui cromosomi» e registrato dal personale sanitario sull’atto di nascita, sarebbe rimasto immutabile sul documento di identità, anche nel caso in cui una persona dovesse sottoporsi alla terapia e all’intervento di riassegnazione di genere.
L’articolo 33 della salátatörvény (in italiano “legge insalata”, così definita dalla – poca – stampa indipendente perché piena di proposte non correlate tra loro e soprattutto non direttamente inerenti alle misure di sicurezza da affrontare contro la pandemia), è solo una delle ultime mosse del premier magiaro ai danni della popolazione LGBT+ ungherese, che si trova ancora una volta sotto gli occhi di tutti e spesso messo sotto accusa da buona parte della stampa internazionale.
Questa legge è stata approvata in un clima di tensione dovuto alla pandemia di Covid-19, periodo durante il quale il premier ungherese ha preso “pieni poteri”, incluso quello di decidere quando sospendere lo stato di emergenza anche a emergenza sanitaria finita. Una cosa non nuova in questo paese, che lo ha già proclamato (e non ancora ritirato) nel 2015, durante la costruzione del discusso, e criticato, muro, volto a bloccare i flussi migratori.
Un affronto gratuito alle persone LGBT+?
Le posizioni della coalizione di governo Fidesz-Kdnp sono omo-lesbo-bi-transfobiche, sessiste e illiberali, pertanto per loro natura ostili alle istanze della minoranza LGBT+ e, opinabilmente, la stessa strategia di opposizione viene anche usata per reprimere le richieste di altre categorie svantaggiate.
Ma la “legge insalata” è gigantesca e i suoi obiettivi sono principalmente economici. Riassumiamone i punti salienti. Il governo (che dal 2014 gode dei due terzi dei seggi in Parlamento, in seguito alla riforma della legge elettorale) potrà decidere liberamente a quali aziende destinare ingenti fondi per organizzare i festeggiamenti del trentesimo anno di indipendenza del paese, previsti per il prossimo anno.
I consigli di amministrazione di quasi tutti i teatri, eccezion fatta per 5 teatri della capitale e pochissimi altri casi nel Paese, saranno composti al 60% da persone nominate dalla coalizione. E sarà sempre la coalizione a decidere quali organizzazioni religiose potranno beneficiare di immobili in comodato d’uso gratuito: per ora c’è una lista composta solo da organizzazioni cristiane (cattoliche, protestanti, greco-ortodosse ed evangeliche).
Potrà anche sovrascrivere eventuali ordinanze che vietano la costruzione di grandi opere di riqualificazione principalmente dedicate alla costruzione di stadi, centri sportivi e servizi turistici, anche in aree protette. I lavori di ammodernamento della linea ferroviaria Budapest-Belgrado costeranno più di 2 miliardi di dollari, il 15% dei quali verrà stanziato dallo stato, lasciando il restante 85% alla cinese Eximbank.
Dei lavori di costruzione si occuperà invece la Rm International Zrt., di proprietà di Lőrinc Mészáros, amico d’infanzia di Viktor Orbán, ex sindaco di Felcsút (paesino in cui Orbán è cresciuto) e, nel 2018, uomo più ricco d’Ungheria secondo Forbes.
Gli altri dettagli, invece, verranno tenuti nascosti per dieci anni al fine di proteggersi da «influenze esterne non autorizzate».
Quindi Orbán ha semplicemente colto l’occasione per danneggiare ancora un po’ le persone LGBT+, tra un accordo e l’altro? No.
Il concetto di “sesso di nascita” serve perfettamente l’ideologia e la strategia politica di tutto quell’insieme di partiti politici, think tank, associazioni e fondazioni a livello globale, che supportano il World Congress of Families legato a doppio filo a partiti sovranisti e alla Chiesa, con tutti i benefici politici ed economici che ne conseguono. Non c’è nulla di cui stupirsi se il World Congress of Families fece tappa a Budapest nel 2017, con Viktor Orbán in persona a fare gli onori di casa dicendo che l’obiettivo del governo è elevare il tasso di natalità, per scongiurare la sostituzione etnica, dall’1.5% al 2.1% entro il 2030.
Il 4 maggio 2020, invece, il suo governo ha respinto la ratifica della Convenzione di Istanbul (sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), dichiarando che l’Ungheria dispone già delle norme necessarie a contrastare queste forme di violenza ma, soprattutto, che questa Convenzione «promuove l’ideologia gender» e l’immigrazione clandestina, in quanto una sua parte obbliga gli Stati firmatari a dare asilo a persone migranti perseguitate per il loro orientamento sessuale e/o identità di genere.
L’unica petizione ungherese organizzata per l’abolizione dell’articolo 33 recita testualmente: «Sì, VORREMMO mantenere il diritto al cambio di nome, perché ci sono casi in cui un’anima nasce nel corpo sbagliato, e chi è al vertice non se ne rende conto!». Analizziamo bene questa frase: dire «chi è al vertice non se ne rende conto» significa escludere che una persona trans possa fare politica e magari raggiungere il Parlamento, perché si sa, le anime che nascono «nel corpo sbagliato» sono poverine, menomate e vanno compatite, non c’è spazio in politica per loro.
E poi, quel “vorremmo” è scritto a caratteri cubitali, quasi a chiedere il permesso.
È perciò estremamente ingenuo sperare nell’effetto positivo di qualsivoglia petizione o lettera a Fidesz-Kdnp, quando nel 2012 hanno fatto entrare in vigore una nuova Costituzione che «tutela l’istituto del matrimonio quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia (naturale e cristiana) come base della sopravvivenza della Nazione».
Sì, Orbán è un oligarca, è corrotto e ha un ego spropositato. Orbán è anche razzista, sessista, classista e omo-lesbo-bi-transfobico. Ma una critica politica che lo liquida come brutto e cattivo non fa che servirgli la vittoria su un piatto d’argento e soprattutto non permette all’attivismo LGBT+ di evolversi.
In primis, la minoranza trans ungherese è piccola e sottorappresentata anche all’interno del panorama LGBT+, specialmente in un periodo in cui il dibattito pubblico si occupa in primo luogo di fare i conti con una pandemia.
In secundis, l’attivismo LGBT+ ungherese si rivolge principalmente a un pubblico cisgender, bianco, giovane e di classe medio-alta, concentrando la maggior parte delle sue attività a Budapest e adottando una comunicazione gentile e decorosa, basata più sulla tolleranza che sul rispetto, sulla dignità e sui principi di uguaglianza. E Orbán ha vinto.
È deprimente vedere che chi si batte per l’eguaglianza richiede diritti fondamentali anziché esigerli, specialmente in un paese dove il corrispettivo delle nostre unioni civili esiste già da più di 10 anni (senza stepchild adoption né adozione congiunta automatiche, ma riconoscendo l’adozione individuale a ogni persona, a prescindere da genere, identità di genere e stato civile) e dove esiste una legge antidiscriminazione ben strutturata anche contro il cyberbullismo e l’hate speech. Peccato che non venga messa in pratica e peccato che un attivismo che si limita a pubblicare comunicati stampa o petizioni non basti per cambiare le cose. Né in Ungheria, né in Italia, né altrove.
Andrea Giuliano è un attivista per i diritti umani che ha vissuto in Ungheria tra il 2004 e il 2016. Nel 2014 è diventato bersaglio di gruppi neonazisti e ultracattolici ungheresi. Qui la sua storia.
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