Omofobia, doppio stigma e qualche buona notizia

La storia dell’HIV è da definirsi una storia di pregiudizi e omofobia: fin dalla sua scoperta, il virus è stato accompagnato da significati metaforici, ideologici e politici che ancora oggi presentano strascichi con cui molte persone della comunità LGBTI+ convivono.

Nel 1981 le morti legate all’HIV furono fatte ufficialmente risalire al crollo del sistema immunitario non più in grado di far fronte anche solo a semplici infezioni. Il CDC (Centre of Disease Control and prevention) scrisse poco dopo: «Il fatto che questi pazienti siano tutti omosessuali suggerisce un’associazione con alcuni aspetti dello stile di vita omosessuale». Il termine “GRID – Gay-Related Immuno Deficiency” (immunodeficienza associata ai gay), usato da alcunə ricercatorə, venne rilanciato nel maggio 1982 dal New York Times contribuendo alla narrazione popolare dell’associazione tra gay e HIV. A nulla valse che nel settembre dello stesso anno il CDC avesse coniato e pubblicato l’acronimo “AIDS”, dopo aver individuato la sindrome anche in soggetti non omosessuali.


La comunità LGBTI+ si trovò travolta da una dicotomia tra l’oggettività del dato scientifico e biomedico e le più viscerali credenze popolari che si stavano moltiplicando grazie a ripetuti errori di comunicazione, parzialità e incertezze legate soprattutto a un discorso scientifico non sessuato, ma che andava per categorie. La tendenza rimase quella di interpretare i dati in termini di “gruppi a rischio”, consolidando la convinzione popolare che più che delle pratiche sessuali i fattori di rischio fossero incarnati in una soggettività specifica. Solo nel 1986 il CDC abbandonò la «lista delle 4H» per identificare i gruppi ad alto rischio: omosessuali, emofilici, persone che fanno uso di di eroina, haitiani. Coloro che non rientravano nella lista vennero comunque consideratə come parte di essa.


Nel 1982 ci fu il primo caso di HIV in Italia. Nel 1985 i casi erano già 198 di cui 89 morti.
Nel 1987 New York e Londra videro sorgere soggetti di coalizione contro l’HIV e l’AIDS – rispettivamente, il virus e la malattia da esso causata – come GMHC (Gay Men’s Health Crisis) e THT (Terence Higgins Trust), mentre in Italia un gruppo di persone e organizzazioni (tra cui Arcigay) costituì LILA (Lega Italiana Lotta all’AIDS). 
Tra i fondatori firmatari figurano Beppe Ramina e Franco Grillini, insieme a Pia Covre (Comitato diritti civili prostitute) e Don Luigi Ciotti (Gruppo Abele). Nel contempo a Bologna nacque anche IDA, Iniziativa Donne Aids, che vide Corinna Rinaldi, attivista e femminista, in prima linea a occuparsi di prevenzione in modo trasversale, trattando anche il sommerso delle soggettività invisibilizzate durante la fase più drammatica dell’epidemia: donne, persone in carcere e parenti.

Va specificato che per il movimento LGBTI+ c’era l’esigenza simbolica di costruire un nuovo immaginario che allargasse a tuttə il perimetro del rischio portandolo fuori dalla cerchia della categoria “omosessuale”. 
«L’HIV colpisce tuttə!»: da allora fu questo il motto. L’epidemia di HIV fu, per il movimento LGBTI+, non  solo una tragica realtà misurabile nella sproporzionata contabilità dei morti, ma anche un problema di doppio stigma: lo stigma antico dell’omosessuale (immorale, contronatura, vizioso, peccatore, ecc.) al quale si aggiunse quello dell’untorə. L’HIV ormai era una sorta di malattia morale pregna di giudizi.
Negli anni le terapie antiretrovirali trovarono spazio, la ricerca proseguì, il movimento LGBTI+ si fece carico di molte istanze assieme al terzo settore, colmando le lacune del mondo istituzionale.

Solo nel 1990 venne promulgata la Legge 135 “Piano degli interventi urgenti in materia di prevenzione e lotta all’AIDS, a oggi l’unico testo normativo sull’HIV in Italia. Fu soprattutto una legge emergenziale che doveva servire a gestire, già in ritardo di 10 anni, un’esplosione epidemica di mortə: la maggior parte del testo era ed è impegnato a regolare aspetti di potenziamento delle strutture sanitarie per far fronte all’emergenza AIDS. 
Diversi studi, condotti in 14 Paesi europei, hanno riscontrato che il raggiungimento e il mantenimento stabile per almeno sei mesi di una carica virale non rilevabile (undetectable) rende pressoché nullo, quindi inesistente o insignificante il rischio di trasmissione sessuale dell’infezione da HIV (untrasmittable): è in questi casi che si parla di U = U.

L’accesso alle terapie antiretrovirali e una buona aderenza ai farmaci sono condizioni indispensabili per raggiungere e mantenere stabilmente la carica virale sotto il limite di rilevabilità e trasmissibilità. Da qui deriva il concetto di TasP (Treatment as Prevention), ossia trattamento come prevenzione.


Tuttavia rimane un certo scetticismo a riguardo, lo stigma è ancora radicato e il lavoro da fare è ancora tanto. Ora anche la legge del ‘90 necessita di una profonda revisione e, fortunatamente, è in corso la discussione di una riforma per renderla più attuale e contestualizzabile a una situazione che richiede il potenziamento dei servizi e la diffusione di corretta informazione.
A Bologna le risorse sono notevoli in ambito di prevenzione e facilitazione per accedere alla PreP e alle altre terapie, basti pensare all’esistenza di Plus aps e all’ambulatorio PrEP presso Malattie Infettive dell’ospedale S. Orsola. Non siamo più in fase emergenziale, ma la lotta al doppio stigma e la necessità di fare corretta informazione riguardo il safer sex e la prevenzione sono ancora la nostra massima priorità. Rimaniamo sempre e comunque tuttə sierocoivoltə.

Immagine nel testo da northeastern.edu