di Elisa Manici
AZT, artista gay e sieropositivo, è un quarantenne bolognese doc, che grazie alla sua arte ha varcato le mura della città, esponendo, negli ultimi dieci anni, in giro per l’Europa e gli Stati Uniti. Molto amato, tra gli altri, dal curatore Peter Weiermair.
Cosa rappresenta l’immagine che hai creato per La Falla?
È una serie di dichiarazioni, scritte con l’inchiostro di china su un tappeto di zollette di zucchero; l’immagine è stata poi colorata in post-produzione. Sono stereotipi e pregiudizi morali sulle persone sieropositive, rispetto ai quali ho giocato col ribaltamento tra giudizio e dato di fatto: io non sono tutte queste cose, ma sono semplicemente sieropositivo. È un fatto, non un’implicita forma di orgoglio, ma c’è anche il sentirsi liberi di dichiarare la propria sieropositività.
Perché hai scelto di lavorare con le zollette di zucchero?
Le motivazioni sono varie: sono una mia cifra stilistica; sono un materiale povero, semplice da reperire, e ciò mi consente di lavorare in modo simile a quello che era proprio degli artisti dell’arte povera; la zolletta è una tessera, si presta bene alla composizione. Ma soprattutto mi piace l’impermanenza delle zollette, simile a quella dei mandala tibetani: creo un oggetto che dura il tempo della fruizione – sempre che venga fruito – e poi scompare. C’è l’annullamento della legge del mercato che inserisce gli oggetti d’arte in un ciclo continuo di profitto, vendita, guadagno.
Il tuo nome d’arte, AZT (il primo medicinale a migliorare radicalmente l’aspettativa di vita delle persone HIV+ e a cambiare quindi la narrazione intorno all’AIDS), è molto significativo e molto politicizzato. Quando e come l’hai scelto?
Risale a una decina di anni fa, iniziai a esporre le mie opere. In quel periodo parlai con un critico che doveva occuparsi del mio lavoro, e quando gli rivelai la mia firma mi rispose: “Te ne pentirai, perché sarai marchiato per tutta la vita con questo, e il tuo lavoro sarà sempre ricondotto alla malattia”. La verità è che non me ne sono mai pentito: non tutti i miei lavori parlano di HIV, ma tutti i miei lavori vengono dalla mia vita, in cui è presente questo virus. Il nome AZT è anche uno strumento politico, che mi ha consentito di mantenere alta l’attenzione su questa tematica e mi ha fornito occasioni per fare discorsi sull’HIV in contesti in cui ciò non accade, come il mondo dell’arte contemporanea. È un nome, infine, che simboleggia la capacità di sopravvivenza delle persone sieropositive.
Su cosa stai lavorando in questo momento?
La cosa più recente è il progetto RADIANCE PRESENCE – Day With(out) Art, giunto alla 26° edizione, organizzato da Visual Aids, il collettore più grande del mondo di opere di artisti HIV+, i cui curatori hanno selezionato una serie di lavori che, nella settimana a cavallo del primo dicembre (World Aids Day, ndA), sono state proiettati in musei, gallerie e associazioni di New York, San Francisco e Miami. Anche in questo caso l’aspetto per me più interessante è che lavori di artisti HIV+ siano stati portati nei luoghi più prestigiosi per l’arte contemporanea, nonché più significativi dal punto di vista del mercato.
pubblicato sul numero 10 della Falla – dicembre 2015
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