Dal 1981 ad oggi il linguaggio che racconta l’epidemia di HIV non smette di trasformarsi. All’inizio furono il “cancro gay”, il “flagello divino” e gli “untori”. Poi arrivarono gli acronimi AIDS e HIV, i Principi di Denver* e quel famoso “NIENTE SU DI NOI SENZA DI NOI”. In quattro decenni le parole sono state etichette, ma anche forze capaci di modellare immaginari, leggi e possibilità. Ogni termine scelto, o imposto, ha inciso sullo stigma, sull’idea di prevenzione che costruivamo, e sulle scelte dei governi.
Impossibile raccontare 44 anni come una parabola lineare: occorrerebbe distinguere l’evoluzione della terminologia scientifica da quella sviluppata dall’associazionismo, separare la comunicazione dei media mainstream da quella delle avanguardie artistiche o dell’attivismo, e seguire le diverse declinazioni geografiche, temporali e culturali.
Non esiste UNA storia del linguaggio dell’HIV, ne esistono molte. E a partire da questa complessità, come collettivo nato per ripensare il modo in cui di HIV si parla, ci ostiniamo a domandarci: “come dovrebbe essere, oggi, la comunicazione su HIV?” Secondo noi, almeno:
ARRAPANTE

Parlare di HIV è un’occasione di confronto su sesso, relazioni e piacere. Le campagne di comunicazione dovrebbero provare ad accenderlo il desiderio, non spegnerlo evocando solo morte e malattia. Dopo decenni di pietismo, paternalismo e sessismo, raccontare la sessualità in termini laici dovrebbe essere un momento di umido empowerment.
FIEROPOSITIVA

HIV è stato per tanto tempo sinonimo di vergogna, discrezione e silenzio. A causa dello stigma le persone direttamente coinvolte spesso sono state le ultime a prendere parola. I tempi sono maturi per ribaltare la prospettiva: chi vive con HIV, conoscendo il proprio status e seguendo le terapie, spezza la catena dei contagi e protegge la sua comunità. Di questo si deve essere orgogliosə.
INTERSEZIONALE

Non esistono persone o orientamenti a rischio, ma esistono contesti e vulnerabilità che espongono a rischi maggiori o diversi. Una comunicazione che vuole fare la differenza dovrebbe essere accessibile e mirata, e non escludere sex worker, persone migranti, razzializzate, detenute, adolescentə, consumatorə di sostanze, persone trans, persone con disabilità o neurodivergenti – né come protagoniste del discorso, né come persone a cui il messaggio è rivolto. L’intersezionalità non è un’etichetta di merito: è un metodo che serve per individuare chi viene esclusə da un discorso, e da quali barriere.
RIVOLUZIONARIA

Raccontare l’HIV significa affrontare una crisi politica apertissima, specie dopo i tagli sui programmi per l’HIV effettuati da Trump e l’ascesa delle destre sessuofobiche. Una comunicazione rivoluzionaria denuncia le disuguaglianze e reclama accesso a cure e prevenzione, per tuttə. È transfemminista, mette al centro bisogni e desideri, e informa sulla crisi della sanità e del diritto alla salute. In pratica la smette di costruire narrazioni pacificate, ma racconta per trasformare l’esistente.
CONTAGIOSA

Infine, se ci riesce, dovrebbe generare un “sapere virale”. Dovrebbe essere in grado di comunicare un’urgenza personale e collettiva, far sbocciare riflessioni, aprire dibattiti, costruire convergenze. Una comunicazione così liberatoria da doverla per forza condividere, fatta di parole che non normano, ma ispirano l’azione e una inevitabile moltiplicazione. Insomma, il linguaggio può cambiare il mondo. E se ci crediamo tuttə nsieme si gode di più.
Perseguitaci