«Che caos! È tutto un ambaradan!» Chi tra voi ha mai utilizzato l’espressione “ambaradan”? Probabilmente è capitato a chiunque di usarla almeno una volta nella vita, ma con quanta consapevolezza sull’origine?
La parola, in effetti, deriva da una pagina di un capitolo oscuro dell’Italia, tanto tragico quanto rimosso: la nostra storia coloniale. Si riferisce a un massacro compiuto sul massiccio montuoso Amba Aradam, in Etiopia, dove tra il 1936 e il 1941 le truppe italiane sconfissero l’esercito abissino in guerra, o, per meglio dire, commisero un genocidio.
Il termine “ambaradan” deriva anche dalla presenza di tribù mercenarie che, passando da una fazione all’altra in base al denaro a loro offerto, rendevano difficile, se non impossibile, capire contro chi si stesse davvero combattendo.
Gli scontri si risolsero a favore dell’Italia per mezzo dell’utilizzo di armi chimiche, nello specifico il gas iprite, rilasciato dalle truppe aeree – anche su persone civili – mentre a terra l’esercito italiano usò proiettili all’arsina e al fosgene: la prima agisce attraverso il sangue, il secondo attraverso un’azione asfissiante.
L’iprite invece causa gravi irritazioni alla pelle, agli occhi e alle vie respiratorie, vescicole, lesioni, danni sistemici a organi interni e una sofferenza enorme, portando alla morte chi ne viene a contatto.
Muoiono 20.000 etiopi tra soldati e civili. Chi sopravvive all’iprite va incontro ai lanciafiamme o subisce terribili abusi. Sono cinque anni di violenza: esecuzioni, stupri, campi di concentramento e torture.
Ancora oggi, nessunǝ ha pagato per quella violazione dei diritti umani.
Illustrazioni di Claudia Tarabella
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