I DIRITTI DELLE PERSONE DETENUTE SONO DIRITTI PER TUTTE E TUTTI
Perché il popolo LGBT+ dovrebbe occuparsi dei carcerati è il titolo di un articolo pubblicato su una testata digitale allo scopo di promuovere la partecipazione del mondo omosessuale alla Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà, promossa dai Radicali italiani. Prendo in prestito da quell’articolo il sottotitolo di questo pezzo: “i diritti dei detenuti sono diritti per tutti”. In che senso? Cosa accomuna popolazione LGBT+ e popolazione detenuta? Nulla, penseranno in molti; eppure qualcosa può essere detto.
Gorizia, aprile 2016. Alcuni quotidiani locali riportano i fatti riguardanti un “reparto omosessuali” nato nel carcere cittadino: un’area protetta attiva dall’estate precedente, destinata ai detenuti dichiaratisi gay, tre in tutto in quel momento. Uno spazio di 63 mq bagno incluso, diviso in due celle, vissuto senza poter accedere all’esterno, né avendo altri vani in uso come sala colloqui o biblioteca. Per i tre detenuti erano pertanto inaccessibili corsi di formazione, eventi socializzativi e altre attività, non solo per carenza di spazi, ma anche per via del personale di polizia penitenziaria sotto organico. Quella di Gorizia non è l’unica area protetta in Italia, ne esistono altre due, una a Ivrea e una a Napoli, né è inusuale imbattersi in analoghe sistemazioni in altri paesi occidentali (un esempio è il reparto K6G di un carcere di Los Angeles, in cui vi abitano circa 360 persone LGBT+).
Questa primavera però qualcuno ha risollevato il tema dell’opportunità di usare tali misure restrittive, giustificate in ottica securitaria. Due senatori, Sergio Lo Giudice e Carlo Pegorer, hanno chiesto al Ministro della giustizia di affrontare la situazione e aprire alla possibilità di “adottare delle nuove linee guida per il trattamento dei detenuti omosessuali e transessuali anche attraverso la collaborazione delle associazioni”, così come il Garante per le persone private della libertà personale del Friuli Venezia Giulia, ha dichiarato: “il programma di protezione, qualora anche fosse richiesto dai diretti interessati, non può risolversi in una discriminazione, nella costruzione di un ghetto: il carcere non dovrebbe piuttosto isolare e curarsi di un programma particolare per i violenti?”.
Riprendendo quanto scritto nel mese di maggio su questo almanacco a riguardo del bullismo omo-transfobico, viviamo in una società che reputa inaccettabili il razzismo, l’antisemitismo, le discriminazioni contro le donne, ma accetta le affermazioni (e talvolta l’agito) contro le persone LGBT+. Come si traduce tutto ciò in carcere? Partiamo dal contesto: in Italia la popolazione maschile detenuta è oltre il 95% del totale (circa 50.000 persone). Una tale sproporzione fra popolazione detenuta maschile e popolazione detenuta femminile, rimarcata anche nella divisione fra i dipendenti della polizia penitenziaria, ha delle conseguenze tangibili a livello di cultura, tanto che gli studiosi hanno coniato il termine “subcultura carceraria”. Con subcultura carceraria intendiamo un insieme di stili di vita e norme apprese attraverso un particolare processo di disculturazione chiamato prigionizzazione. Spazio monosessuato, il carcere è così ben lontano dall’essere un luogo neutro, dove potersi reinserire socialmente così come richiesto dall’articolo 27 della Costituzione e dall’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario.
Ciò che si dice per il bullismo in un contesto non ristretto, in carcere esplode in violenza verbale e fisica. Così, tornando al reparto per omosessuali, per alcuni questa forma di tutela altro non sarebbe che una segregazione nella segregazione, capace di sedare gli animi, senza toccare la radice del problema.
Non sono solo i movimenti LGBT+ ad essersene accorti. Gli Stati Generali sull’Esecuzione Penale promossi dal Ministero della Giustizia, conclusi quest’anno, hanno aperto una riflessione sulla presenza di persone omosessuali e transessuali fra la popolazione detenuta, un tema abbastanza taciuto o toccato attraverso stereotipi ormai antichi. Il “destino” (la parola e il virgolettato sono proprio della relazione finale degli Stati Generali, ndr) delle persone omosessuali dipenderebbe “anche dalla loro decisione di dichiarare, al momento dell’ingresso, il proprio orientamento sessuale. Si tratta di una scelta delicata, che produce delle precise ricadute”. Ricadute legate ‹‹alla condizione di isolamento all’interno della “sezione protetti”››, come persona vulnerabile protetta, appunto, dall’aggressività degli altri detenuti assieme agli altri “infami”, chiamati così nel gergo della subcultura carceraria (es. sex offenders), all’interno di sezioni a custodia attenuata. L’alternativa sono le ricadute legate al tacere in mezzo agli altri detenuti la propria condizione, in sezione condivisa, esponendosi a pesanti atteggiamenti discriminatori e sempre sotto minaccia, nel caso di coming out o outing, di una reazione violenta: dai pestaggi agli abusi sessuali. A proposito di ciò, nella subcultura carceraria è solitamente considerato omosessuale solo chi nel rapporto ha il ruolo ricettivo (indipendentemente che si tratti di prostituzione, relazione stabile o violenza), mentre gli altri sarebbero considerati alla stregua di maschi che fanno sesso con altri maschi.
La soluzione della segregazione nella segregazione è certo più facile da attuare che non un lento, fermo e progressivo contrattacco culturale alla subcultura carceraria, peccato risulti inefficace rispetto agli obiettivi costituzionali del carcere.
La subcultura carceraria non rappresenta un problema solo per la sicurezza dei maschi omosessuali. Pensiamo alla situazione vissuta dalle detenute e i detenuti transgender e transessuali (a tal riguardo segnalo il film La bocca del lupo); la loro collocazione all’interno di sezioni maschili o femminili, la conseguente necessità di protezione nel caso in cui si trovino ancora in transizione e la garanzia di ricevere le cure ormonali. Pensiamo a quel 5% di popolazione detenuta che vive nelle sezioni femminili, dove è possibile esternare con maggior trasparenza le proprie emozioni e i sentimenti, nonché vivere eventuali rapporti omosessuali, e non per questo spariscono le ritorsioni disciplinari delle agenti di polizia o l’esclusione da parte di altre compagne detenute. E ancora il tema delle infezioni sessualmente trasmissibili, come HCV e HIV, diffuse anche inconsapevolmente per via di rapporti sessuali clandestini, che in carcere in quanto luogo pubblico non possono avvenire diversamente. Per spiegarci, è possibile acquistare riviste pornografiche, ma non preservativi. Pensiamo al danno per la persona e per l’intera collettività nel caso un detenuto contragga una malattia senza saperlo e senza poter dichiarare come l’ha contratta, e la trasmetta ad altri partner stabili o occasionali.
In conclusione provo a fare un accenno a ciò che possiamo chiamare il solidarismo nella difesa dei diritti, al di là delle questioni strettamente LGBT+.
Londra, 1984-1985. Lesbians and Gays Support the Miners (LGSM). Un gruppo di attiviste e attivisti spontaneamente decide di ampliare la propria lotta a quella dei minatori in sciopero da mesi. I sindacati dei minatori respinsero in un primo momento gli aiuti raccolti, irrigiditi dai propri pregiudizi, fino a quando qualcuno non accolse quel gesto per quello che era: un legame di solidarietà. In seguito a quei fatti, la federazione dei sindacati inglesi incluse i diritti delle persone LGBT+ nel loro statuto.
Non si può pensare che la lotta per i diritti esista solo per i propri diritti. Non si può lottare per la libertà di un gruppo, negandola ad un altro, avrebbe sostenuto Martin Luther King secondo sua moglie Coretta Scott. La perdita della libertà personale di un soggetto non può trasformarsi nella perdita della sua umanità: dotarsi di strumenti per contrastare questo processo di disumanizzazione è possibile.
Ecco perché, per quanto ciò possa risultare difficile, la lotta per i diritti dei detenuti e delle detenute rimane una lotta per i diritti civili di tutte e tutti.
pubblicato sul numero 20 della Falla – dicembre 2016
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