Come ho più volte affermato, il nostro corpo equivale a un’orchestra sinfonica guidata nella sua armonia dagli ormoni. Gli ormoni sono sostanze complesse, dei veri e propri messaggeri chimici secreti da ghiandole o cellule endocrine che devono comunicare con altri distretti corporei contenenti le cosiddette cellule bersaglio che, una volta ricevuto il messaggio attraverso i recettori, si azionano di conseguenza, mettendo in moto delle reazioni specifiche a seconda delle loro funzioni. Questo vale anche per gli ormoni sessuali che, nel complesso, portano a uno degli eventi più orchestrati in assoluto a cui il corpo umano debba far fronte oltre al ciclo mestruale: la gravidanza. Gli ormoni messaggeri principali degli eventi che riguardano la gravidanza sono la gonadotropina corionica umana, gli estrogeni e il più noto progesterone. 

Il progesterone determina la trasformazione dell’endometrio – la mucosa interna del corpo uterino – rendendolo adatto all’annidamento dell’embrione, riduce la risposta dello stesso endometrio alle prostaglandine e all’ossitocina, favorisce il rilassamento dell’utero, chiude il canale cervicale con la produzione di muco G che fa da tappo e copertura, creando una sorta di stanza ideale e protetta dal mondo dove far crescere l’embrione.

Ebbene, il mifepristone, l’ormone sintetico alla base della RU-486, interagisce a tutti questi livelli causando l’interruzione della gravidanza, legando il recettore del progesterone e impedendone l’azione, promuovendo lo sfaldamento dell’endometrio e l’espulsione dell’embrione. Si ha così quello che viene definito aborto farmacologico

Il metodo farmacologico, con l’opportuno accompagnamento medico, è sicuro ed efficace, e può essere utilizzato, oltre che per l’interruzione volontaria, anche nel trattamento di varie condizioni cliniche quali l’aborto spontaneo, l’aborto incompleto, la morte fetale intrauterina. Il metodo si basa sull’utilizzo di due farmaci: il mifepristone della RU486 e il misoprostolo, una prostaglandina. L’azione sinergica porta all’espulsione totale dell’ambiente creato per lo sviluppo dell’embrione al pari di una mestruazione, anche se più massiccia e sicuramente più complessa da gestire sia a livello psicologico che fisico.

La pillola RU486 ha alle spalle una lunga storia che affonda le sue radici nelle battaglie per l’applicazione della legge per l’interruzione volontaria di gravidanza, la legge 194 del 1978. 

Nel 1989 la senatrice Elena Marinucci, sottosegretaria alla Sanità, sollecitò l’introduzione della pillola RU486 in Italia. La resistenza che ne seguì accomunò cattolicə e laicə, a discapito della libertà di scelta delle interessate [1] e si trasformò in un’autentica battaglia (ndr: All’epoca non vi era ancora un discorso politico che coinvolgesse le identità non binarie Afab, né consapevolezza rispetto alla procreazione degli uomini trans*).

L’opposizione all’introduzione, di matrice patriarcale e religiosa, fu tale che nel 1991 la casa farmaceutica Roussel-Uclaf – produttrice della pillola – rese pubblica la decisione di non commercializzare il farmaco in Italia. Vinse dunque la mancanza di libertà di scelta.

Tra le argomentazioni, le più gravi riguardavano la preoccupazione che l’aborto farmacologico potesse rendere la scelta di abortire troppo leggera e priva della mediazione più lenta del dolore che un intervento chirurgico avrebbe invece potuto infliggere. 

Nel 2001 finalmente l’AIFA diede il via libera all’utilizzo della pillola RU486 in Italia, imponendo però il ricovero di tre giorni. Negli anni solo alcune regioni hanno optato per un regime più leggero, ma le insidie della legge italiana si sono palesate e si palesano ancora ovunque.

Nell’agosto 2020, in piena emergenza pandemica, è uscita la circolare del Ministero della Salute per l’aggiornamento delle «Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine», che prevede l’estensione della metodica farmacologica fino a 63 giorni, pari a 9 settimane compiute di età gestazionale e non più 49 giorni, pari a 7 settimane.

Si determina anche la possibilità di effettuare la somministrazione in regime di day-hospital e in regime ambulatoriale presso strutture pubbliche adeguatamente attrezzate autorizzate dalla Regione e anche presso i consultori.

Dopo oltre due anni dalla sua pubblicazione, l’aggiornamento ministeriale delle linee di indirizzo è stato recepito solo da alcune regioni e con grandi differenze interpretative. La gran parte di quelle che hanno aperto alla possibilità del regime ambulatoriale prevedono comunque che l’interessata debba recarsi in consultorio almeno tre volte: la prima per l’assunzione della RU486; la seconda, dopo 48 ore, per l’assunzione della prostaglandina, cui segue una permanenza in consultorio per un periodo di osservazione di almeno 3-4 ore; la terza per verificare l’avvenuta espulsione, dopo 20 giorni. E questo sperando di non incontrare gruppi pro-vita per strada e di non assistere allo sbucare di cimiteri per feti, esperienze che potrebbero rivelarsi devastanti per la salute mentale in momenti in cui la disponibilità di contesti safe e procedure più semplici sono requisiti fondamentali, recepiti per esempio dalla regione Lazio, che prevede un protocollo più snello con un unico accesso alla struttura sanitaria e un controllo successivo dopo 15-20 giorni.

Poche settimane fa è stato il turno dell’Emilia-Romagna per la somministrazione della pillola RU486 anche nei consultori: Parma ai primi di ottobre, successivamente Modena e Carpi, la Romagna con Ravenna e Cattolica e in seguito Bologna e tutte le province restanti. 

La notizia è un sollievo, eppure le considerazioni generali in merito sono molto amare: la storia della RU486 e dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è un racconto di battaglie, di coercizioni e di controllo sulla nostra vita sessuale in cui purtroppo la parola è stata tolta alle protagoniste e a tutt’oggi fatica a emergere. Il controllo patriarcale da parte dello Stato italiano sull’accesso all’aborto è evidente e risulta ancora una concessione anziché un diritto fondamentale. 

Non rimane che continuare a lottare.

[1] Il diritto all’aborto gratuito, libero e sicuro riguarda in egual misura donne cis, persone non binarie Afab e uomini trans*. Abbiamo tuttavia scelto di usare il femminile per il testo dell’articolo per sottolinearne il peso politico nelle lotte del passato in continuità con quelle del nostro presente che vedono diverse soggettività combattere insieme.