Il green pass, o certificazione verde, è il documento richiesto in Italia a partire dal 6 agosto per accedere a molte delle attività che rendono la vita degna di essere vissuta – dai ristoranti (al chiuso) alle biblioteche, passando per palestre, piscine, centri culturali, cerimonie ed eventi. È inoltre indispensabile per viaggiare in Europa.
Il lasciapassare viene negato soltanto a coloro che:
a) non hanno avuto il Covid negli ultimi 6 mesi
b) non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino
c) non si sottopongono a un tampone molecolare per verificare la loro negatività 48 ore prima di accedere al servizio richiesto.
Il meccanismo di funzionamento del dispositivo ha messo in allarme già da alcune settimane le associazioni trans* e LGBTQ+, che ne intravedono il rischio per la privacy (e la sicurezza) di un segmento demografico in particolare: le persone trans* medicalizzate i cui dati anagrafici non corrispondono alle fattezze fisiche. Veder verificate le proprie generalità in pubblico può essere motivo di disagio per ogni soggettività trans* (e non solo!), ma in questo caso particolare il rischio paventato è specificamente quello dell’outing in situazioni non necessariamente sicure e/o protette.
Naturalmente non stupisce che ancora una volta il legislatore, anche a livello europeo, si sia dimenticato di coloro che hanno sui documenti un nome e un gender marker difforme rispetto alle aspettative di genere o che non rispecchia la loro identità.
Col senno di poi – ma abbiamo già qualche elemento per dirlo – scopriremo che la pandemia ha schiacciato i deboli più dei forti, e ha ricacciato chi già viveva ai margini ancora più lontano. In generale, l’incremento del controllo statale nelle nostre vite quotidiane si è tradotto in maggiori difficoltà per coloro che si trovano in situazioni burocraticamente non standard, come le persone trans* o coloro che per altri motivi sono privati di un valido documento di riconoscimento. Quasi ogni azione di protezione (fisica o psicologica) dalla pandemia è passata attraverso un modulo da compilare: dall’autocertificazione per andare a trovare amici e parenti, ai dati personali da snocciolare per il tampone, per il vaccino e ora per il green pass – il quale, a ben vedere, non aggiunge che un peso marginale alla discriminazione sistemica già in atto.
Fra le varie battaglie che la comunità trans* ha da combattere, dunque, quella contro il green pass è forse la meno importante, a meno che – come nella campagna promossa dal Gruppo Trans – non si abbia cura di rimandare senza mezzi termini a quella che per me è la causa di tutti gli abusi: i tempi e le modalità inaccettabili con cui lo stato riconosce il genere dei suoi cittadini. I rimedi cosmetici come le identità alias, che costituiscono traguardi pregevoli alla portata dei gruppi di attivismo sparsi sul territorio, non risolvono alcun problema strutturale e si rivelano inapplicabili nelle situazioni in cui i dati anagrafici servano a identificare esattamente le generalità della persona. Quel che è peggio è che rischiano di divenire obiettivi di lotta, anziché essere riconosciute come palliativi: c’è chi ha proposto, in un suo appello alle autorità molto condiviso sui social, la creazione di un ingenuo green pass alias per le persone trans*.
D’altro canto, si può capire: ai primi di agosto la parola-chiave “transgender” era già saturata dalla parabola della sollevatrice Laurel Hubbard, che con il suo spettacolare fallimento olimpico si è conquistata i galloni di vera donna, a dispetto delle polemiche che avevano accompagnato la sua qualificazione. Se crollare sotto un peso eccessivo è la prova che tocca a noi tutti per accedere alla comunità dei cittadini veri, forse con un green pass così concepito ci stiamo avvicinando al traguardo.
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