COME IL TEATRO SI È APERTO ALLA COMUNITÀ LGBT+

Licensing Act 1737 è il nome della norma che fino al 1968 imponeva il controllo regale sul teatro inglese. Nata per limitare la satira politica, è stata uno strumento in mano a omofobi, sessisti e razzisti per più di duecento anni.

La legge implicava la censura di qualsiasi contenuto LGBT+, anche se rappresentava negativamente individui o comunità, persino nel sottotesto. Vittima di questo controllo fu A Patriot for me di John Osborne, a cui il palco venne direttamente negato nel 1965. Pur di rappresentarla, nel ‘66 il Royal Court Theatre si trasformò in un club privato; ciò diede il via a una battaglia legale contro lo Stato, che terminò solo in concomitanza dell’abolizione del Licensing Act. L’opera di Osborne racconta la storia di una spia omosessuale, che non si vergogna né si giustifica per la sua sessualità, nonostante sia perseguito per la stessa. È una delle prime opere teatrali in cui viene chiesto a chi guarda di identificarsi con un frocio, non perché ha una storia tragica, o perché è divertente, o perché è un genio, ma semplicemente perché è frocio. Similmente, Torch Song Trilogy (Trad. it. Amici, complici, amanti) di Harvey Fierstein illustra il desiderio di genitorialità di un uomo gay, ebreo, di professione drag queen; disilluso dall’amore, cerca una connessione con il pubblico basandosi esclusivamente sulla sua umanità. Cercando di dare un senso all’Hiv e alla lotta all’apatia del governo di Reagan, The Normal Heart racconta la storia di un gruppo di attivisti e di una dottoressa disposti a combattere, nei primi anni ‘80, per avere dei fondi per studiare il virus della “piaga gay”. Ambientata negli stessi anni, Angels in America è un’ampia riflessione sulla corruzione del sistema, sull’isolamento che provano i malati, su che cosa nutre la loro speranza.

La corrente che racchiude queste e altre storie viene definita gay plays: quasi totalmente maschile, la corrente raccoglie contenuti e desideri molto diversi, e ha una ricezione differente sui palchi newyorkesi e inglesi. Il teatro, che oggi associamo al mondo queer, alla possibilità di mescolare i generi e alla libera espressione, ha passato un periodo piuttosto conservatore, ma è anche misura di come i tempi cambino.

Nel 1968, The Boys in the Band di Mart Crowley fatica a raccogliere nove attori disposti a rovinare le loro possibilità di fare carriera per interpretare un personaggio gay, mentre il suo revival quest’anno ha attratto molti attori noti (Jim Parsons, Zachary Quinto, Matt Bomer, Andrew Rannells) in una produzione composta esclusivamente da omosessuali dichiarati. Non tutte le gay plays hanno avuto un ritorno così fortunato; in ciò celebriamo la bravura di Crowley nel creare un racconto sull’omofobia interiorizzata, prima che esistesse una vera e propria definizione della stessa. Uno degli scopi delle gay plays è stato rappresentare cosa significasse, per alcuni, vivere apertamente la propria omosessualità, spingendo verso una forma di accettazione-integrazione sociale. Ha dato inoltre il via alla creazione di spazi sicuri nei teatri, che sono stati rifugio e casa per molte persone LGBT+.

Prima che si stabilissero elementi ricorrenti nella rappresentazione televisiva intrisi di morti e rappresentazioni superficiali, avevamo cominciato ad avere una voce pubblica. Gli autori delle gay plays ci ricordano di celebrare tutte le storie, al di là del canone imposto da Hollywood. E che, nonostante tutto, una comunità continuò a costruirsi negli spazi che occupava, raccontando chi era, chi poteva essere, chi sarebbe stata.

pubblicato sul numero 41 della Falla, gennaio 2019