…e che non è il cunnilingus, ma parlare
Sono quasi passate due settimane dall’Intersex Awareness Day, e questo pezzo esce oggi, 8 novembre, nel giorno dell’Intersex Day of Remembrance. Per chi non lo sapesse, queste due settimane sono molto importanti per chi come me è intersex; tanto più c’è l’occasione di fare divulgazione col beneficio della risonanza internazionale, tanto meglio è.
Di certo, e chi fra voi è attivista LGBT+ lo sa bene, è un lavoro vero e proprio che non comincia e non si esaurisce in una tantum occasionale.
Ma arriviamo al punto. Non voglio parlare di cosa è intersex: in un anno o poco più ho visto decuplicare le informazioni. Poi, la stasi: mi viene chiesto di ripetere sempre le stesse cose semplificate, e ho visto accadere lo stesso alle associazioni del mio settore. Ok, repetita juvant: quando si fa attivismo si dovrebbe partire dal presupposto che l’ignoranza su un tema delicato – quale la causa intersex – non debba essere considerata una colpa, ma un’occasione per colmare un vuoto. Questo è un punto che va affrontato e superato senza farsi torcere lo stomaco, altrimenti il rischio è duplice: o ci si ritrova a parlare in accademichese con chi ha i mezzi per capire il linguaggio (ed è già d’accordo con noi), oppure si finisce per attirare ostilità da parte di chi non ha idea della nostra esistenza, non immagina quali siano i problemi ed è neutrale sull’argomento. Per quanto sia frustrante ho accettato le regole del gioco. Ho lavorato sul linguaggio e sulle modalità di espressione; la nonna diceva che attira più una goccia di miele che un vaso di fiele. E adoro vedere volti illuminati quando parlo in pubblico della nostra causa. Adoro la coesione, l’intersezionalità, quell’abbraccio che ritrovo tutte le volte in cui parlo di quello che l’essere intersex può dare, se ne si supportano le istanze.
Ma nulla di concreto è accaduto. La chirurgia cosmetica genitale non consensuale continua a essere permessa, in Italia e nel mondo. E nessun* sembra sapere della nostra esistenza.
Per questo, proprio per il valore che attribuisco all’intersezionalità, ho bisogno di un riscontro da parte delle associazioni LGBT+ che decidono di aggiungere quella benedetta I. Se il punto è l’intersezionalità di una lotta (e lo è, perché l’intersezionalità rende singole minoranze maggioranza), deve esserci davvero, o è meglio lasciar perdere. Deve avere radici solide, deve permettere di fare passi avanti che non siano l’eterna ripetizione di nozioni, o la narrazione strappalacrime del singolo caso che lì per lì sembra diffondere empatia nel prossim*, ma che poi si esaurisce di ritorno verso casa. Insomma, quella I, come tutte le lettere della sigla, ha un valore. Non solo ideale, ma pratico. Quella I racchiude esistenze violentate e traumatizzate per sempre, racchiude famiglie destabilizzate per niente. Racchiude forza, e una liberazione da una dicotomia imposta socialmente, quella binaria, che è lungi dall’essere un fatto scientifico e biologico. Quella singola narrazione accorata, tanto spesso richiesta, ha un costo: quello del rivivere un trauma che necessita una vita per essere rielaborato e superato. Quella I vuole rispetto, vuole che chi la usi si assuma la responsabilità di sapere quello che significa e che implica il citarla, le sofferenze che è costata, le lotte, l’invisibilizzazione dagli albori della civiltà.
E la verità è che spesso questa cognizione non c’è. Così come non c’è un supporto fattivo che renda l’occasione divulgativa l’incipit dell’azione: la protesta.
Di questi tempi come non mai mi viene il mal di testa quando penso alla protesta.
Vedo persone litigare sulle modalità, sento appelli all’educazione, all’attesa, alla pazienza che impone l’ars politica. Il farsi le pulci su come sia meglio agire: andiamo in piazza, no non andiamo in piazza, parliamo al tavolo di governo, oppure no.
Dal basso del mio essere una singola persona, quello che penso è che non sia una buona mossa pensare che la via morbida e teorica sia migliore rispetto alla protesta, anche chiassosa. Anzi, rivendico il diritto di protestare. Per quanto possa sembrarmi seducente l’idea che 4 o 4000 post su Facebook possano avere risonanza, non sono convinta che un articoletto su un quotidiano noto che parli dell’indignazione online possa cambiare alcunché. Lo so; fa freddo, c’è da lavorare per mangiare, e tutte quelle cose da fare che una vita strangolata da un sistema che abbiamo supportato passivamente impone di fare. Dai, scherzavo.
E quindi…
Care associazioni LGBT+, car* attivist* indipendent*, car* femminist*, care persone sedicenti normali, care minoranze e car* alleat*, abbiamo bisogno l’un* de l* altr*.
Per vivere meglio è impensabile considerare un problema slegato da un altro.
Volente o nolente, camminiamo sullo stesso pianeta. Gli abusi sono una catena, e nessun* dovrebbe accettare compromessi quando si parla di diritti. Dove c’è troppo guadagno per qualcun*, altr* pagano un prezzo altissimo, e ormai lo sappiamo: fare scale di priorità sulle urgenze porta solo a una lotta fra pover*. Non ha alcuna utilità pensare che l’abbassare la testa per quattro briciole porti ad un cambiamento significativo.
Perché fino ad ora nessun* ha ottenuto altro. Né concretezza, né un punto di svolta. E abbiamo un bisogno disperato di futuro.
Serve educazione, dialogo e prospettiva. Bisogna poter continuare.
E protestare. Io ci sono.
Andiamo?
Foto in evidenza: “Rules of desire” (2015), di Lilian Capuzzimato, AKA Alexi Paladino
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