LA STRAGE, IL PASSATO, IL PRESENTE

Della strage alla stazione di Bologna non ho memoria. Sono nato nel 1988, otto anni dopo l’attentato del 2 agosto, e ho imparato solo col tempo il significato di parole, simboli e numeri.

«Ero a letto anche se ormai erano passate le 10, ma preferivo studiare di notte e, quindi, mi svegliavo tardi» ricorda Danila Faenza «Ad un certo punto si sentì un boato fortissimo, talmente forte da far tremare i vetri delle finestre, un rumore che non avevo mai sentito prima e che, per fortuna, non ho mai più sentito. Mia madre venne in camera mia, allarmata, dicendo che il “botto” le ricordava i bombardamenti della guerra. Doveva essere successo qualcosa di grave e, infatti, dopo pochi minuti, il suono delle  sirene era incessante».

Ne cerco altri, di ricordi, per riempire quel vuoto fatto di emozioni che non ho provato.

«Ero in negozio dalla zia Vanna, la aiutavo, era un sabato mattina. Il rumore di quelle sirene non si dimentica», mi dice mia madre. Di nuovo le sirene. Chiedo anche a una delle amiche più care: «Ero a letto. Dormivo, mi ha chiamato la Patti sconvolta! Poi ricordo molto bene il giorno terribile dei funerali. La Patti non so se stesse andando in stazione per i giornali e credo abbia sentito il boato. Poi le voci iniziali che parlavano di una caldaia che era esplosa. E ha visto la scena terribile degli autobus con i cadaveri», racconta Rosalba. «Chiedi a Marina. Lei lavorava alle poste in stazione… E aveva appena finito il turno».

A Marina non chiedo. Non ancora. Perché la tentazione di ricostruire quella mattina attraverso le testimonianze di chi era presente ma, fortunatamente, lontano dalla sala d’aspetto di seconda classe della stazione è molto forte e questa non è la sede.

È il 2 agosto 1980: una bomba squarcia la città e chi la abita. È costituita da compund B, un esplosivo composto da tritolo, T4 e gelatine. «Non c’è bisogno di entrare nella stazione per accedere all’orrore. Basta arrivare nel piazzale antistante, che è un tappeto di macerie. Una coperta di terra e cemento su cui sono adagiati i morti, unico elemento statico nella disperazione collettiva. Gli altri, i volontari, i militari in divisa kaki, i medici, corrono ovunque nel tentativo di rendersi utili. “Una bombola d’ossigeno! È urgente!” urla in un filmato un dottore con il camice aperto. “È una cosa tremenda, è una cosa bestiale” dice un ragazzo con il fiatone. Un bolognese, sulla cinquantina, grassoccio, con la camicia bianca a maniche corte, si passa le mani tra i capelli e ripete “Sono arrivato qui ma non ci capisco niente… Non si capisce niente…”. Intanto i feriti sono lì, nella polvere, ciascuno con qualche sconosciuto accanto a stringergli la mano. Di tanto in tanto le telecamere mostrano le barelle ma è atroce guardare perché non sempre trasportano feriti, e nemmeno morti. Dai lenzuoli bianchi spuntano pezzi di corpi, avanzi umani dell’esplosione. Poi una telecamera riprende l’orologio della stazione, con le lancette immobili sulle 10,25. L’unica certezza, in quel caos»[1].

Una seconda certezza, immortalata dalle riprese di quel giorno, sarà l’autobus numero 37, con i finestrini coperti dai lenzuoli, che fa la spola tra la stazione e gli obitori. Lo stesso autobus, che da Piazza Nettuno arriva a Piazza Medaglie d’oro ogni 2 agosto.

Le vittime sono 85: Vito Ales (20 anni), Mauro Alganon (22), Maria Idria Avati (80), Rosina Barbaro (58), Nazzareno Basso (33), Euridia Bergianti (49), Katia Bertasi (34), Francesco Betti (44), Paolino Bianchi (50), Verdiana Bivona (22), Argeo Bonora (42), Irene Breton (61), Sonia Burri (7), Davide Caprioli (20), Flavia Casadei (18), Mirco Castellaro (33), Antonella Ceci (19), Franca Dall’olio (20), Roberto De Marchi (21), Elisabetta Manea (60), Vito Diomede Fresa (62), Cesare Francesco Diomede Fresa (14), Errica Frigerio (57), Antonino Di Paola (32), Mauro Di Vittorio (24), Brigitte Drouhard (21), Berta Ebner (50), Lina Ferretti (53), Mirella Fornasari (36), Angela Fresu (3), Maria Fresu (24), Roberto Gaiola (25), Pietro Galassi (66), Manuela Gallon (11), Natalia Agostini (40), Francesco Gomez Martinez (23), Carla Gozzi (36), John Andrew Koplinski (22), Vincenzo Lanconelli (51), Antonio Francesco Lascala (56), Pier Francesco Laurenti (44), Salvatore Lauro (57), Velia Carli (50), Umberto Lugli (38), Eckhardt Mader (14), Kai Mader (8), Margret Rohrs (39), Maria Angela Marangon (22), Rossella Marceddu (19), Angela Marino (23), Leo Luca Marino (24), Domenica Marino (26), Armoveno Marzagalli (54), Carlo Mauri (32), Luca Mauri (6), Anna Maria Bosio (28), Patrizia Messineo (18), Catherine Helen Mitchell (22), Loredana Molina (44), Antonio Montanari (86), Nilla Natali (25), Lidia Olla (67), Giuseppe Patruno (18), Vincenzo Petteni (34), Angelo Priore (26), Roberto Procelli (21), Pio Carmine Remollino (31), Gaetano Roda (31), Romeo Ruozi (54), Vincenzina Sala (50), Sergio Secci (24), Iwao Sekiguchi (20), Salvatore Seminara (34), Silvana Serravalli (34), Mario Sica (44), Angelica Tarsi (72), Maria Antonella Trolese (16), Anna Maria Salvagnini (51), Vittorio Vaccaro (24), Eleonora Geraci (46), Fausto Venturi (38), Rita Verde (23), Onofrio Zappalà (27), Paolo Zecchi (23), Viviana Bugamelli (23).

I feriti sono 218.

Per il presidente della Repubblica Sandro Pertini, accorso a Bologna, «Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia mai avvenuta in Italia», arrivano i messaggi di condoglianze della presidente della Camera Nilde Jotti e di Papa Giovanni Paolo II; è, però,  il discorso del sindaco Renato Zangheri – pronunciato ai funerali di Stato del 6 agosto 1980 – ad affondare nel cuore della strage: «Che cosa si è voluto? Seminare il panico, indebolire le difese della Repubblica, fino a soffocarla? Spostare l’asse politico su posizioni di cieca conservazione? O suscitare una reazione violenta, per poi, dopo averla provocata, preparare le condizioni della repressione? In queste ore di lutto non possiamo evitare le domande, lo sforzo di capire, se non vogliamo che l’angoscia si muti in disperazione […] Il terrorismo nero, bloccato dalle grandi manifestazioni popolari del ’74, è sembrato rintanarsi e cedere il passo. È un caso che nel momento in cui si indeboliscono altre trame eversive, quella nera torni alla ribalta prima con avvisaglie purtroppo trascurate poi con tutta la sua carica omicida? Sono domande inquietanti, inevitabili».

Domande inquietanti, inevitabili, che trovano risposte parziali solo in una verità giudiziaria che emerge da molti, troppi, anni di depistaggi.

Il 19 gennaio 1987 si apre il processo di primo grado davanti alla corte di Assise di Bologna. L’11 luglio del 1988 viene emessa la sentenza: Massimiliano Fachini, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco vengono condannati all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna e a diversi anni di carcere per banda armata, insieme a Paolo Signorelli, Roberto Rinani, Egidio Giuliani e Gilberto Cavallini; la stessa sentenza riconosce colpevoli di depistaggio Licio Gelli, Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci, tutti condannati a 10 anni di carcere.

Abbandonate le false ipotesi della prima ora – che davano come probabile causa dell’esplosione lo scoppio di una caldaia -, gli inquirenti si sono rivolti alla pista dell’eversione nera e dello stragismo di estrema destra, arrivando a identificare in Valerio Fioravanti e Francesca Mambro il cuore pulsante dei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) e di una fitta rete di relazioni con il resto del mondo neofascista. In questo contesto si inserisce l’azione di Propaganda 2 (P2) di Gelli e il suo lungo tentacolo all’interno del Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi). Una macchina potente che, come ricorda anche Antonella Beccaria, diede vita a una innumerevole serie di depistaggi: dall’operazione «Terrore sui treni» alle varie «Piste internazionali» che vogliono la strage di Bologna ora frutto di una ritorsione di Gheddafi, ora opera del Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp).

Governo e Parlamento non si sottraggono a questo gioco di nascondimenti e ambiguità.

Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri all’epoca dei fatti, sostiene a caldo la tesi dell’attentato neo-fascista, dichiarando di fronte al Senato della Repubblica, non più tardi del 4 agosto 1980, come sia ormai chiara la «matrice di destra» della «orribile strage»[2]. Tuttavia, già il 5 agosto – il giorno successivo –  egli presiede una riunione congiunta di Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza (Cesis) e Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza (Ciis), invitando tutti i partecipanti a evitare rapporti diretti con la magistratura: questo isolerà l’azione dei giudici che sono alla ricerca di ogni indizio possibile per far luce su quanto accaduto. La retromarcia di Cossiga sembra avere un impulso decisivo nel 1991 quando, da presidente della Repubblica, afferma non solo di essersi sbagliato nel definire fascista la strage del 2 agosto, ma porge pubbliche scuse al Movimento sociale italiano. Incalzato da Riccardo Bocca circa queste dichiarazioni, nel 2007, l’ex presidente si schiera per l’assoluta innocenza di Mambro e Fioravanti, sostenendo che a fargli cambiare idea siano stati i terroristi rossi, «In particolare la visita che mi ha fatto Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. “Non vengo a difendere me stessa”, mi ha detto. “Sono qui per difendere quei due ragazzi, Mambro e Fioravanti”». Chiosa Cossiga: «Credo molto più ai terroristi rossi, che ai magistrati. Tra la loro serietà e quella dei magistrati, lo scriva, c’è un abisso. […] La verità è che a Bologna non si poteva condannare uno di destra: si doveva! […] Lei ha davanti a sé una persona che ritiene una cazzata che la magistratura sia indipendente»[3].

Il Legislatore non sarà da meno. Durante il secondo governo Berlusconi, la Commissione parlamentare Mitrokhin, presieduta da Paolo Guzzanti, rilancia, nella relazione finale di maggioranza, la tesi secondo cui l’attentato a Bologna sia stato compiuto dal Fplp. La relazione finale di minoranza, invece, affermerà che le piste internazionali sono opere di depistaggio messe in atto dai vertici del Sismi e da Licio Gelli.

Lo stesso Guzzanti dichiara di non condividere la tesi finale della commissione.

Una trama intricata, marcia in diverse delle sue diramazioni, in cui molti e molte giocano un gioco sporco. Occorre allora tornare ai processi, perché l’unica verità possibile, a oggi, è quella contenuta nelle 600.000 pagine di atti processuali.

Il 18 luglio 1990 la sentenza di secondo grado della Corte di Assise di Appello di Bologna assolve tutti i neofascisti per strage, condannando solo per banda armata Fioravanti, Mambro, Giuliani e Cavallini e per depistaggio Belmonte e Musumeci.

Il 12 febbraio 1992 le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione emettono la sentenza di terzo grado, stabilendo che il processo deve essere ricelebrato.

Il 16 maggio del 1994 viene emessa la sentenza della prima Corte di Assise di Appello di Bologna: Fioravanti, Mambro e Picciafuoco vengono condannati all’ergastolo per strage e per banda armata insieme a Cavallini e Giuliani; condannati per depistaggio Gelli, Pazienza, Belmonte e Musumeci.

Del 23 novembre 1995 è la sentenza di quinto grado, emessa dalla Corte Suprema di Cassazione. Fioravanti e Mambro sono condannati all’ergastolo; Fioravanti, Mambro, Cavallini e Giuliani per banda armata; Gelli, Pazienza, Belmonte e Musumeci per depistaggio.

Il caso di Picciafuoco viene spostato a Firenze, dove verrà sollevato da tutte le accuse nel 1997 dalla Corte suprema di Cassazione.

Il 30 gennaio del 2000, invece, si apre l’iter processuale di Luigi Ciavardini – diciassettenne il 2 agosto 1980 -, che si concluderà nel 2007 con la condanna definitiva per strage.

Un cammino lunghissimo, travagliato, che non lascia tregua alle famiglie delle vittime della strage. Ritornano alla memoria le parole scritte proprio sul nostro giornale da Daria Bonfietti in occasione del trentacinquesimo anniversario della strage di Ustica, nell’articolo Giustizia e Verità : «Settant’anni sono una vita e dunque, per i parenti di Ustica, una metà vita, una metà della loro quotidianità, è stata segnata dalla mancanza di verità e di giustizia, dalla mancanza di quei diritti che sono alla base della repubblica che nasce dalla Resistenza. Dice proprio una sentenza del Tribunale civile di Palermo, parlando dei parenti delle vittime, che “se avessero potuto conoscere in tempi ragionevoli la ragione della morte dei loro congiunti, avrebbero potuto evolversi ed esprimersi con una libertà molto maggiore, potendo elaborare il lutto della morte dei loro congiunti, senza restare nella prigione di questa verità negata, e potendo dedicare le energie che hanno impiegato nella ricerca della verità ad altre forme di realizzazione della propria personalità”».

Non vale forse lo stesso per i parenti delle vittime della strage di Bologna? Basta leggere i primi discorsi di Torquato Secci – presidente di Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 fino al 1995 – e confrontarli con quelli degli ultimi anni, di Paolo Bolognesi, l’attuale presidente. Verità e giustizia. Questi gli imperativi categorici, l’esercizio infaticabile e incessante che i familiari hanno assunto in sussidiarietà a uno Stato ancora manchevole. Verità e giustizia che tardano a venire, nonostante la direttiva Renzi del 2014 sulla declassifica della documentazione sulle stragi avvenute tra il 1969 e il 1984, «fino ad oggi applicata in modo superficiale» dichiara Bolognesi. Perchè sono stati condannati gli esecutori materiali ma i mandanti rimangono occulti.

«Ho perso un altro treno qui a Bologna, l’orario non funziona più; fa le 10 e 25, son trent’anni che non va e chi l’ha rotto non si sa o non ce lo voglion dir» cantavano gli Oblivion nel 2012.

Oggi Mambro e Fioravanti sono a piede libero. Mambro dal 2000, Fioravanti dal 2009. Ancora non chiariscono le versioni contrastanti e i tanti punti irrisolti delle loro testimonianze; continuano a dichiararsi innocenti. Cossiga è morto nel 2010, con lui i suoi segreti. Chi ha voluto la strage di Bologna rimane ancora avvolto da un osceno mistero.

A marzo 2018 si è aperto il processo per concorso in strage a carico di Cavallini, anche lui terrorista dei Nar, che – ne è convinta l’Associazione dei familiari delle vittime – potrà fare luce proprio sulle responsabilità apicali della stagione dello stragismo nero.

Nell’autunno del 2018 la Procura Generale ha avocato a sé un esposto presentato ormai otto anni fa dall’Associazione, con il quale si chiedeva la riapertura delle indagini sui mandanti della strage: alcuni conti correnti legati a Licio Gelli potrebbero aprire nuovi spiragli di verità.

«Si stava molto insieme agli amici. Eravamo emotivamente sconvolti. Lo sentivamo come un attacco preciso nei confronti di Bologna» mi racconta ancora Rosalba «Un attacco fascista. Su questo non avevamo dubbi».

39 anni dopo, noi, movimento LGBT+ – bolognese e non – , dovremmo imparare a essere una comunità fondata proprio sull’antifascismo: il nucleo costitutivo delle nostre identità e delle nostre libertà. Lo dobbiamo a un presente in cui i baluardi repubblicani e democratici cominciano a scricchiolare sotto il peso dell’usura e di un autoritarismo sempre più sfacciato. Lo dobbiamo a chi, oggi, porta avanti quelle inesauste richieste di giustizia e verità e, per ottenerle, ha bisogno anche delle nostre lotte. Lo dobbiamo a noi stesse per farci testimoni di un tempo che portiamo tutte inscritto nel nostro DNA.

[1] Bocca R., Tutta un’altra strage, BUR, Milano: 2007, pp-21-22.

[2] Ivi, p. 32.

[3] Ivi, pp. 238-244.

Immagine in evidenza e foto orologio: Comune di Bologna Rete Civica Iperbole