«A tuttә lә adolescenti che abbiamo incontrato in questi anni, e alle moltissime cose che ci hanno insegnato, sperando di averne fatto buon uso in questo libro, e oltre». Con questa dedica Valeria Roberti e Giulia Selmi aprono il loro Una scuola arcobaleno. Dati e strumenti contro l’omotransfobia in classe, pubblicato da poco per le edizioni Settenove.
I curricula delle autrici parlano da soli: Roberti viene da una lunga storia di attivismo, è facilitatrice del Centro Risorse LGBTI e si occupa di educazione alle differenze con adolescenti e adulti; Selmi è una sociologa e saggista, nonché socia fondatrice di Il Progetto Alice e vicepresidente dell’associazione Educare alle Differenze.
E infatti fin dalla dedica si capisce che questo libro mette in luce come la scuola sia una comunità in cui tuttә possono imparare da tuttә, smontando la concezione del flusso unidirezionale nella trasmissione dei saperi che per lungo tempo ha dominato la pratica didattica.
Il volume prende l’avvio da una ricerca svolta su scala nazionale che ha indagato la vita scolastica di un migliaio di adolescenti LGBTQ+ di età compresa fra i 13 e i 20 anni. Incontrando le autrici abbiamo chiesto loro di raccontarci qualche episodio che le ha colpite in modo particolare leggendo le risposte di questә studenti. Per Selmi, un dato molto interessante riguarda «la loro autoidentificazione: infatti dovevano scegliere in quale categoria si riconoscessero nello spettro messo a disposizione, e le risposte sono state molto varie». Il 12% si riconosce in un genere “altro” rispetto alle opzioni maschio/femmina/trans definendosi gender fluid, non binary, a-gender, gender queer, e il 26% di loro risponde “questioning” o “asessuale/queer/non voglio definirmi” riguardo al proprio orientamento sessuale.
«Mentre il dibattito adulto è fermo a discutere se citare o meno l’identità di genere nel ddl Zan, alcunә adolescenti sono già altrove con le loro ricerche identitarie, che forse sfuggono nel loro eccedere le categorie, ma vanno ascoltatә da chi lavora a scuola e non solo. È come se questә ragazzә fossero partitә per un viaggio e le loro esplorazioni sono più complesse di quelle che gli adulti si aspettano, ma vanno prese sul serio.»
In aggiunta, Roberti ricorda che, oltre ai numeri, un’altra parte importante ed emozionante è stata leggere i commenti lasciati nei questionari in cui ragazzi e ragazze citavano «sia episodi molto positivi legati per esempio ai loro coming out, sia momenti brutti di discriminazione, ma è comunque bello sentire che gli e le adolescenti vogliono raccontarsi».
Nel libro sono disseminati tantissimi consigli per chi lavora in ambito educativo e uno molto interessante che le autrici danno è di creare Una mappa per nuove parole: una riflessione sulle scritte omofobe/sessiste/razziste che spesso si trovano sui muri delle scuole. Il consiglio è di analizzarle in modo critico invece di applicare una semplice censura. «È difficile pensare che una persona possa sanzionare una parola offensiva – dice Roberti – se prima non ha fatto un lavoro di analisi sui motivi che stanno dietro all’uso di quel termine. Bisogna sempre andare in profondità rispetto alla superficie delle relazioni, anche discriminatorie, soprattutto se si lavora con persone che si stanno formando.»
E Selmi aggiunge che «non si sanziona chi dice “frocio o troia” per generica maleducazione, perché la questione non è solo di bon ton, ma quelle parole si portano dietro qualcosa. A quindici anni magari vuoi usare le parolacce, ma chi insegna deve fare uno scarto in più: ragionare su questi termini offensivi con i ragazzi e le ragazze è anche un modo per non scappare e decostruire il linguaggio d’odio».
C’è poi il grande tema della visibilità, anche se oggi è molto facile per le/i più giovani reperire contenuti su temi queer grazie a internet e ai social media, secondo le autrici è importante che anche a scuola si dia spazio a storie e personaggi LGBTQ+ nella pratica didattica, nonostante i programmi ministeriali e il canone di molte materie curricolari sembrino non offrire molti appigli. Ma la mancanza di tempo lamentata dal corpo docente può essere «un alibi – secondo Selmi – perché non serve aggiungere un nuovo pezzo di programma; la nostra indicazione metodologica è che non devi fare la storia LGBTQ+ o femminista o anticoloniale, basta rileggere le cose che già fai in un certo modo, per esempio senza omissioni biografiche. Come una professoressa di inglese che in quinta superiore fa leggere Sarah Waters raccontando la sua biografia e commentando i suoi testi che all’interno hanno amori lesbici».
Sottolinea Roberti che proprio per questo motivo in fondo al libro c’è Una cassetta degli attrezzi per costruire percorsi didattici ed educativi, una sezione ricca di suggerimenti di film/serie tv/siti web/libri che si possono usare anche in classe. Per esempio, cita «un’insegnante di diritto che usava Modern Family come spunto per trattare il tema del diritto di famiglia, per citare una forma di famiglia diversa ma pur sempre rappresentazione del reale.»
In questi anni stiamo assistendo a un grande ricambio generazionale nel corpo docente: insegnanti più giovani possono essere un’occasione per far aumentare l’attenzione all’inclusione? Per la sua esperienza, piuttosto che un gradiente di età, Selmi nota «un gradiente di genere, anche se sicuramente docenti più giovani possono avere avuto esperienze più vicine a persone LGBTQ+. Ma dal mio personale osservatorio sulla scuola sono soprattutto le insegnanti, di ogni età, a essere foriere del cambiamento, forse anche perché le donne sono la maggioranza nel corpo docente.»
Quando la nostra chiacchierata sta per finire, Roberti racconta un ultimo episodio significativo, avvenuto a una presentazione del libro fatta a Cagli, un paesino in provincia di Pesaro Urbino dove ha sede la casa editrice Settenove. «All’incontro c’erano anche il preside della scuola locale e diverse insegnanti, e si era creato un piccolo dibattito, ma quando l’assessora ha chiesto al preside se anche nella sua scuola si stesse facendo qualcosa sul tema omotransfobia, lui ha risposto “da noi queste cose non succedono”. Alcune insegnanti però si sono risentite per questa sua frase, perché vivono l’ambiente classe in maniera ben diversa e si rendono conto che certe dinamiche ci sono eccome… Presentazioni come questa sono fondamentali, e penso che il nostro libro possa essere di grande aiuto proprio in contesti come quello. Non mi aspetto che serva a chi già si interessa a questi temi, ma invece sarebbe bellissimo raggiungere le persone che non ne sanno niente o quasi, e anzi pensano che certi problemi da loro non ci siano e non sia necessario fare nulla contro gli stereotipi».
L’augurio che facciamo alle autrici è che questo libro, piccolo ma prezioso e utile, trovi uno spazio nella scuola italiana per aiutare insegnanti e studenti a migliorare l’ambiente educativo per tuttә.
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