di Ilaria Todde

Nota dell’autrice: Questo testo è il seguito della riflessione sulla Conferenza Lesbica Europea organizzata da EL*C a Roma. Se lì raccontavo (con Silvia Casalino) cosa ha significato costruire la conferenza a partire dalle nostre traiettorie di emigrazione lesbica, qui racconterò il passo successivo: la Dyke March, che è stata organizzata da un gruppo di attiviste italiane in occasione della conferenza.

Il 26 aprile 2025, giornata della visibilità lesbica, duemila lesbiche hanno marciato per le strade di Roma nella prima Dyke March italiana. L’annuncio dal carro che diceva che avremmo potuto effettivamente marciare, i discorsi, la potenza dei nostri corpi in strada con tutte le nostre differenze: sono stati momenti di immensa gioia e soddisfazione. Ma ora che sono passate alcune settimane, mi chiedo: cosa ci portiamo a casa da questo percorso durato nove mesi e condiviso da decine di lesbiche provenienti da contesti e traiettorie politiche molto diverse?

Annabelle Georgen

Come dichiarava il manifesto politico, «la nostra Dyke March guarda a ciò che succede in Italia, in Europa e nel mondo e rivendica che la nostra identità lesbica non può prescindere dai luoghi, dalle culture e dalle politiche in cui si sono svolte le nostre storie di lotta». In questo senso, scendere in piazza insieme alle lesbiche ungheresi a cui Orbán voleva vietare il Pride, alle georgiane che resistono all’influenza russa, alle iraniane che sfidano il regime e alle palestinesi sotto genocidio è stata una scelta politica precisa. Non si è trattato di solidarietà simbolica, ma di una pratica politica che da anni alimenta le nostre lotte e, in diversi momenti, ci ha permesso di trovare unità ed efficacia.

Esiste infatti un legame concreto di complicità e interdipendenza tra i movimenti lesbici europei e le azioni delle lesbiche in Italia che si è tradotto in mobilitazioni forti e visibili. Penso, ad esempio, alla presa di parola collettiva del 2020 dopo il lesbicidio di Elisa Pomarelli. La sua morte, la narrazione mediatica che descriveva l’assassino come un gigante buono, e il rifiuto di parlare di Elisa come lesbica furono uno shock collettivo. Nell’estate del 2020, tutto questo aveva spinto moltissime singole e organizzazioni lesbiche a firmare un appello condiviso. Nonostante il momento di lutto, eravamo riuscite a lavorare insieme e, in quel caso, le connessioni internazionali attraverso la EL*C, la solidarietà dimostrata da attiviste di altri paesi e il fatto che il caso avesse raggiunto i media di tutta Europa, avevano rafforzato l’azione nazionale.

Un meccanismo simile si era attivato nel 2023, quando la procura di Padova aveva revocato i certificati di nascita a 33 madri lesbiche. Allora EL*C, ormai rete strutturata con centinaia di realtà aderenti, riuscì a mobilitare manifestazioni davanti a decine di consolati e ambasciate italiane all’estero. Anche in quel caso, la pressione e la solidarietà internazionale permisero  di far emergere la prospettiva lesbica, ispirando azioni italiane come la manifestazione davanti al Vaticano, che di nuovo aveva utilizzato l’attenzione europea come leva per coinvolgere media e politica.

Marisa Teresa Cinque

Ma costruire una Dyke March con una forte piattaforma politica richiedeva qualcosa di più. Serviva un percorso politico di costruzione orizzontale e condivisa, che integrasse anche realtà che non conoscevamo, persone con cui non avevano mai avuto contatti diretti e che, per ragioni più che legittime, non si riconoscono in reti europee o in progetti finanziati dall’Unione Europea. È stato fondamentale, da parte nostra, scegliere l’ascolto e il rispetto per le pratiche di uno dei movimenti lesbici più forti e vitali d’Europa.

L’attivismo lesbico in Italia è ricco e diversificato in modi straordinari. Senza pretese di completezza, mi piace ricordare che ci sono attiviste lesbiche visibili e in ruoli di leadership nei movimenti femministi e LGBTIQ+, carre lesbiche o FLINTA+ nei Pride, intellettuali, accademiche e ricercatrici che portano una prospettiva lesbica nel loro lavoro, un Osservatorio permanente sulla lesbofobia, iniziative contro la violenza nelle coppie lesbiche, progetti per la visibilità e la resistenza culturale e politica, così come iniziative culturali e sociali che da decenni costituiscono un vero e proprio bastione di resistenza lesbica.
La chiamata alla Dyke March doveva partire da un riconoscimento reale di questa ricchezza. Chi ha deciso di partecipare a quel percorso lo ha fatto con la forza e la sicurezza necessarie a lasciarsi contaminare da prospettive esterne, senza rinunciare alla propria autonomia.

Questo è, per me, il vero successo della Dyke March: aver costruito un percorso politico orizzontale e trasversale, che è arrivato al culmine di una riemersione collettiva e potente. Un momento in cui tantissime lesbiche hanno deciso – da luoghi e vissuti diversi – di esserci, di unirsi e di lottare.

La situazione attuale dei diritti delle lesbiche, delle donne e delle persone LGBTIQ+ in Italia, in Europa e nel mondo è gravissima. Ma se c’è una cosa che mi dà speranza sono le compagne con cui da anni (o da qualche mese) si marcia insieme.

Immagine in evidenza: Angelica Polmonari