L’estate calda dell’omofobia italiana
di Elisa Manici
“Non accettiamo né gay, né animali”. Una giovane coppia gay si è sentita rispondere così, nel mese di luglio, dal proprietario di una casa vacanze vicino a Tropea. I ragazzi, di Napoli, non hanno incassato in silenzio, ma hanno allertato l’Arcigay partenopea sull’accaduto, e questa vicenda è finita su molti media. Da quel momento, sembra che l’omofobia sia entrata – vivaddio – nell’agenda setting di molte testate, che hanno passato il resto della stagione a raccontare alcuni dei molti casi avvenuti. Dalle donne trans cacciate da un ristorante utilizzando la falsa scusa che fossero abbigliate in modo poco consono, alle lesbiche redarguite in spiaggia per effusioni considerate inopportune – ovviamente in quanto agite da omosessuali, a vere e proprie aggressioni fisiche; l’estate 2017 ha coperto ogni possibile sfumatura del termine omo-lesbo-bi-transfobia.
La ricaduta sui social è stata enorme. Senza considerare i post omofobi degli analfabeti funzionali e piccinerie assortite, anche solo concentrandosi sui post anti-omofobia, il traffico social generato da questi episodi è stato immane. Certo, è fondamentale alimentare un movimento di opinione pro diritti civili, ma molte delle azioni sul web erano palesemente inconcludenti: petizioni su change.org et similia (spoiler: tutte le raccolte firme online sono inutili e servono solo a raccogliere e vendere i vostri dati), liste di proscrizione – spesso approssimative nella compilazione – dei locali omofobi, e molta indignazione strillata, senza alcuna analisi del contesto. A ogni nuovo episodio, un’ondata di post che urlavano un’indignazione nella migliore delle ipotesi innocente, ossia ignorante, e nella peggiore alla ricerca consapevole di facile consenso social. Capiamoci: gli omofobi sono brutti e cattivi sempre, e tali rimangono. Ma il punto è che non viviamo in una Starshollow queer, dove gli episodi di omofobia spuntano dal nulla ad opera di qualche omofobo isolato, e per il resto la società ci ama alla follia.
Quindi forse, oltre che essere arrabbiati e feriti per ogni singolo episodio occorso, bisognerebbe aiutare i non attivisti, il bracciante lucano frocio, la casalinga di Voghera lesbica, a comprendere che l’omofobia in Italia è profondamente sistemica. I rapporti annuali di Ilga Europe sulla qualità della vita delle persone Lgbtqi ci collocano sempre tra i fanalini di coda, in mezzo ai Paesi dell’ex Unione Sovietica, che hanno una storia di omofobia di stato e religiosa ben peggiore della nostra. Quest’anno, poi, abbiamo dati per la prima volta prodotti in Italia: nel luglio scorso è stata licenziata la relazione finale della commissione parlamentare Jo Cox (in onore della deputata britannica uccisa, ndA) su intolleranza, razzismo e fenomeni di odio, e i risultati sono prevedibili ma non per questo meno sconfortanti. Rispetto agli stereotipi, il 43,1% degli italiani “ritiene che i gay siano uomini effeminati, e il 38% che le lesbiche siano donne mascoline”; il 25% considera l’omosessualità una malattia. Sulla discriminazione vera e propria, il 40,3% delle persone Lgbtqi è stato discriminato nel corso della vita, e il 23,3% della popolazione omosessuale ha subito minacce e/o aggressioni fisiche, a fronte del 13,5% di eterosessuali, mentre il 35,5% è stato oggetto di insulti e umiliazioni, contro il 25,8% degli eterosessuali. Le persone Lgbtqi sono a pari merito con i migranti come oggetto d’odio nei messaggi su Twitter, con il 10,8% dei casi.
Il lato positivo è che veniamo a conoscenza di sempre più casi di omofobia perché più persone scelgono di esporsi, denunciandoli. Per quanto si possa o meno essere a favore delle unioni civili, il fatto stesso che le relazioni tra persone Lgbtqi siano finalmente previste dall’ordinamento legislativo ha inevitabilmente iniziato a mutare la struttura sociale del Paese, con sempre più persone che scelgono di vivere senza nascondersi, e di presentare al mondo le proprie storie sentimentali, gesti d’affetto e status relazionali compresi. L’unica speranza di consolidare il cambiamento è continuare a metterci la faccia, mettendo in gioco le proprie esistenze, e questo vale non solo per le attiviste delle metropoli, dove la vita è più semplice, ma anche per la casalinga di Voghera lesbica e per il bracciante lucano frocio.
Pubblicato sul numero 28 de La Falla – Ottobre 2017
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