IL TESTAMENTO BIOLOGICO TRA AUTODETERMINAZIONE E RELAZIONE
Il 9 febbraio del 2009, in assenza di una legge sul fine vita, arriva la notizia della morte di Eluana Englaro, dopo 17 anni passati in stato vegetativo. La battaglia eroica di Beppino Englaro non si esaurisce, però, con la scomparsa della figlia: insieme a Eluana si è sepolta anche ogni iniziativa legislativa in merito.
Il 20 aprile 2017 la Camera ha licenziato una legge sul biotestamento. Per l’approvazione definitiva del Senato si è dovuto aspettare il 22 dicembre dello stesso anno, con un parlamento sbloccato dall’intervento di papa Francesco che, su questi temi, invita a “un supplemento di saggezza”. Per comprendere meglio la normativa e i suoi effetti abbiamo intervistato la dottoressa Danila Valenti, direttrice dell’Unità Operativa Complessa Rete delle Cure Palliative dell’Azienda Usl di Bologna. Eletta nel 2015 nel direttivo della European Association for Palliative Care, tra il 2007 e il 2013 è stata vicepresidente della Società Italiana di Cure Palliative e referente istituzionale per il testamento biologico.
Quali sono i punti cardine di questa normativa?
È una legge sul consenso informato, quindi sulla possibilità che noi abbiamo di esprimerci rispetto a quello che vogliamo o non vogliamo. Dal primo di gennaio vale, ufficialmente, il consenso o il dissenso che tu hai scritto mesi o anni prima. Queste sono le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), ovvero quelle che io, persona sana, scrivo nell’eventualità in cui dovessi trovarmi in una situazione in cui potrei essere incosciente o incapace di esprimermi. La pianificazione condivisa delle cure, invece, si attua quando la persona ha già una malattia: in questi casi concordo con l’équipe sanitaria quello che vorrei fare sulla base del decorso della patologia. Mentre le Dat possono essere scritte in qualunque formato e portate gratuitamente in Comune – e il fiduciario ivi nominato può essere chiunque, anche un’amica – , la pianificazione condivisa delle cure rimane all’interno del rapporto tra sanitari e paziente ed è scritta nella cartella clinica.
Qual è la differenza tra testamento biologico ed eutanasia?
L’eutanasia è provocare direttamente la morte: iniettare o somministrare sostanze con il fine di uccidere una persona, con il consenso della stessa. Il suicidio assistito è, invece, quella situazione per cui ti preparano una flebo o un cocktail di farmaci e tu stesso assumi le compresse o apri la flebo. Nulla a che vedere, quindi, con le Dat e con la pianificazione condivisa delle cure. La morte di Piergiorgio Welby, per esempio, non è stata eutanasia, né suicidio assistito. In questo caso sarebbe addirittura bastato l’articolo 32 della Costituzione, il quale sancisce che, per farti qualunque trattamento, io debbo avere il tuo consenso: la ventilazione forzata è una terapia e il paziente può legittimamente chiedere di sospenderla. Dal punto di vista etico, sospendere una tracheotomia equivale a non iniziare la tracheotomia stessa. Bisognava però fare i conti con il consenso attuale. Welby poteva legittimamente chiedere la sospensione della ventilazione forzata ma, una volta rimossa, nel momento in cui lui avesse perso conoscenza, quello che aveva detto e scritto 10 giorni prima non avrebbe avuto alcun valore giuridicamente vincolante. Questa legge sancisce il valore legale di quanto dichiarato precedentemente.
È vero che i medici lasciano morire i pazienti di fame e di sete?
La nutrizione artificiale non è un sostegno vitale, è una terapia. Quando ci riferiamo alla nutrizione forzata non parliamo del brodino caldo che viene portato con affetto al caro ammalato, bensì di una composizione di sostanze chimiche che vengono introdotte attraverso un tubo che dal naso passa fino allo stomaco, o che viene posizionato direttamente nello stomaco attraverso un intervento chirurgico. In un tumore in fase avanzata, per esempio, la terapia nutrizionale non solo non è una terapia salvavita ma non è nemmeno appropriata. Ce lo dicono anche le linee guida della European Society for Clinical Nutrition and Metabolism: il tumore viene definito “trappola di glucosio” proprio perché utilizza tutto quello che viene immesso per crescere. In questo caso, quindi, la nutrizione porta più svantaggi che vantaggi: non andrebbe nemmeno proposta. Salvavita, invece, era nel caso di Eluana Englaro, ma, in quanto terapia, può essere rifiutata e oggetto di Dat.
Il dibattito pubblico spesso oscilla tra due poli: accanimento terapeutico e obiezione di coscienza. Lei cosa ne pensa?
“Accanimento terapeutico” è stato tradotto nel testo della legge in “ostinazione irragionevole” perché è una contraddizione in termini: se è accanimento non è terapeutico, non è terapia. L’ostinazione irragionevole è quella per cui una persona che sta morendo viene mantenuta in questo stato per giorni grazie, per esempio, alla dopamina, che mantiene attiva la circolazione. Non è che la dopamina mi permette di salvare il paziente o di farlo stare meglio o di ridurre la sofferenza; semplicemente prolunga il processo del morire. L’obiezione di coscienza, invece, non è stata citata nella legge perché un medico non ha la possibilità di obiettare su qualcosa che riguarda me: se ti dico che quella terapia non me la puoi fare, tu non me la devi fare. In caso contrario agiresti contro il dettato costituzionale. Come sanitario, non posso fare obiezione, non rispettando una persona in quello che è un suo diritto.
Che definizione dà dell’autodeterminazione?
Questa legge vuole che la persona possa conoscere il più possibile per decidere per sé. Non è ammissibile che una società imponga un concetto di qualità di vita: è inaccettabile e irrispettoso; imporlo nel momento in cui qualcuno non può più esprimersi è un abbandono nel senso più profondo e drammatico del termine. Non a caso il primo principio dell’etica medica è proprio quello dell’autonomia. Come un’ostetrica, io debbo tirare fuori quello che i miei pazienti hanno dentro, agendo in virtù del loro concetto di bene, senza proiettare quello che io ho in mente per me. In realtà, bisognerebbe parlare di autonomia relazionale, perché io non sono una monade isolata, ma sono in quanto interagisco con la mia rete di rapporti interpersonali. Il sostegno e la promozione di questa autonomia hanno nell’etica della cura di Carol Gilligan il proprio principio base: sospendo qualunque tipo di giudizio, rispettando a tal punto la persona che ho di fronte, che cerco di sostenerla al massimo nella sua idea di qualità di vita. Tutto ciò, però, è possibile solo all’interno di una società eticamente matura, capace di riconoscere e sostenere il diritto alla malattia. Altrimenti dov’è la libertà di scelta? Se a qualcuno, con una patologia invalidante, noi diciamo che il problema è economicamente il suo e che la malattia non ci piace perché non è di buon gusto, allora, sottilmente ma profondamente, stiamo dicendo a quella persona che la sua vita non è degna di essere vissuta, portandola a non voler vivere la malattia . Se io, sano, attraverso le tasse, non pago per te, malato, ti tolgo la libertà della scelta. Ecco perché una società matura presuppone un servizio sanitario pubblico: io riconosco il tuo diritto alla malattia ma riconosco anche il valore della tua vita ancorché malata; non solo, riconosco il fatto che la tua fragilità dà una maturità ulteriore, più alta e più profonda alla società.
pubblicato sul numero 39 della Falla – novembre 2018
immagine in evidenza: un dettaglio del poster del numero 39 della Falla (novembre 2018) realizzato da MissTendo
Perseguitaci