Si dice che la storia la scrivano i vincitori, ma forse non è del tutto vero nel mondo dello sport. In particolare quando a vincere sono donne, persone non conformi, queer o trans. Come spiegare altrimenti il parziale oblio di figure come Lina Radke, pioniera dell’atletica leggera femminile e vincitrice dell’oro olimpico per gli ottocento metri piani alle olimpiadi del 1928, a malapena celebrata per la vittoria subito prima che si dichiarasse quella distanza inadatta alle donne tanto da rimuoverla dalle competizioni olimpiche fino al 1960; o figure come Stella Walsh, oro per i centro metri piani nel 1932, della quale si diceva che «corresse come un uomo», tanto che a destare lo scalpore maggiore per quanto riguarda la sua vita fu un’autopsia che finì per etichettarla come persona intersex post mortem. 

Di queste e altre storie parla Life is not a competition, but i’m winning, documentario tedesco del 2023, in programma per la sedicesima edizione di Some Prefer Cake domenica 22 alle ore 16 al Cinema Nosadella. A seguito della visione è poi previsto un talk con la regista Julia Fuhr Mann. 

La cornice del documentario è costituita da un collettivo di atletə queer che si propone di onorare e ricordare la storia di chi dal podio è statə allontanatə. La costruzione narrativa, che alterna la definizione di una possibile utopia di uno sport senza costrutti di genere al racconto dei tasselli dimenticati della storia olimpica, non solo è particolarmente efficace ma riesce a restituire la necessità comunitaria delle soggettività oppresse di ricostruire un archivio comune da cui ripartire. Una dinamica in cui la memoria e il ricordo diventano riappropriazione e autodeterminazione, sfidando quel silenzio degli archivi di cui ha parlato Saidiya Hartman in merito alla storia delle persone nere. 

Life is not a competition, but i’m winning si rivela poi particolarmente interessante in questo momento storico, giacché la recente conclusione dei Giochi Olimpici di Parigi ha visto l’opinione pubblica esplodere attorno a vittorie ritenute non conformi o scorrette, come quella di Imane Khelif, pugile algerina, o comunque discusse come quella dell’italiana Valentina Petrillo. 

La riappropriazione degli immaginari e degli spazi che ci hanno escluso rimane centrale nel dialogo tra atletə all’interno della pellicola, intervallato da dichiarazioni che hanno il sapore del mantra, della speranza e della rivolta: «Con i nostri corpi ambigui e devianti, disintegriamo la tenace adesione all’uniformità. Con i nostri fluidi corporei infiltriamo tutte le fessure del presunto naturale che non è mai esistito»