In occasione della mostra RESISTING OBLIVION. Passione e attivismo negli archivi femministi e queer di Bologna presso la Project Room del Mambo di Bologna (dal 29 maggio al 28 settembre 2025), abbiamo intervistato Chelsea Szendi Schieder, storica e ricercatrice che ha partecipato al progetto in qualità di esperta di archivi sociali.

RESISTING OBLIVION è un progetto che esplora la dimensione storica e collettiva dell’attivismo sul territorio Bolognese attraverso gli archivi, come ti sei interfacciata con le istituzioni e le associazioni bolognesi che custodiscono e lavorano con questi archivi?

Ho studiato i movimenti sociali in Giappone, il movimento studentesco e il movimento di liberazione delle donne, in seguito il movimento ambientalista come focus più recente. La questione di dove i movimenti sociali custodiscono i loro materiali è molto importante in Giappone ed esistono questi piccoli archivi che hanno difficoltà a rimanere aperti al pubblico e a sopravvivere, ci sono anche gruppi di attivismo che mettono i loro documenti negli archivi statali ma c’è sempre il rischio di essere marginalizzatə o dimenticatə.

Quando sono arrivata qui a Bologna una mia amica mi ha fatto conoscere la Biblioteca delle donne, l’ho trovato un posto fantastico: attraverso la biblioteca ho trovato l’archivio di storia delle donne, poi attraverso quest’ultima ho conosciuto il Cassero e ho scoperto che custodisce un archivio. Ero qui a Bologna e pensavo di fare una ricerca comparativa sui movimenti sociali e di attivismo tra l’Italia e il Giappone, non ero sicura su cosa esattamente e nel frattempo mi sono interessata a questi archivi. Attraverso il Cassero ho conosciuto il Mit, Luki Massa e Outtakes, archivi per me interessanti per diversi motivi: in primo luogo sono stati in grado di mantenere una certa autonomia e allo stesso tempo sono riusciti ad avere sostegno dalla città. Mi è sembrato interessante osservare come il sostegno della città abbia reso possibile il mantenimento della collezione nel tempo e la sua apertura al pubblico.

Se le collezioni non sono accessibili, diventa difficile fare ricerca — non solo per le ricercatrici, ma anche per favorire un transfert generazionale. È fondamentale permettere alle nuove generazioni di comprendere che, già in passato, esistevano movimenti femministi e queer. Ho anche potuto vedere come operano questi archivi e in che modo rimangono attivi nel presente: ad esempio, il Cassero lavora direttamente con la comunità attraverso i suoi sportelli. In Giappone, invece, molti archivi legati all’attivismo sono gestiti da generazioni più anziane e non garantiscono necessariamente un passaggio intergenerazionale.

 Le ricerche curatoriali degli ultimi anni si sono concentrate molto sull’uso degli archivi, in particolare sul ruolo degli archivi come veicolo per la trasmissione di una memoria collettiva. Qual è stato il tuo approccio nei confronti di un archivio così importante come quello del Cassero? Hai avuto difficoltà nel lavorare con un archivio che presenta una tale mole di documenti eterogenei?

Direi che il mio nome è nella mostra in qualità di curatrice, ma non mi sento proprio la curatrice.

Proprio come l’archivio su cui ho lavorato in Giappone, anche questo è stato parte di un tentativo di far conoscere tali realtà a un pubblico giapponese — come una forma di ispirazione per qualcosa che, forse, potrebbe diventare possibile anche lì, nonostante le differenze di contesto.

Per comprendere la storia e la varietà dei materiali, ho potuto contare sull’esperienza di chi lavora negli archivi: il loro contributo è stato fondamentale. In particolare per questa esposizione, ma anche in fase di preparazione, la selezione dei materiali è avvenuta proprio grazie al confronto con loro, che mi hanno aiutata a capire cosa è significativo per la comunità.In sintesi, direi che si è trattato anche di un processo collettivo.

 Nelle tue ricerche e progetti ti occupi spesso di archivi sociali giapponesi, hai riscontrato differenze e/o somiglianze con gli archivi delle varie realtà bolognesi coinvolte nella mostra?

Quello che ho notato con l’archivio di storia delle donne, ma in verità con anche tutti gli altri, è una forte spinta alla raccolta archivistica.

Solitamente negli archivi dei movimenti sociali si trovano attivisti orientati verso il presente e il futuro. Quando le persone creano un volantino per un evento con lo scopo di riunire persone o diffondere consapevolezza, questi volantini sono — possiamo dire — monouso, sono infatti chiamati effimeri: vai all’evento e dopo li butti via. Trovo invece che ci sia la necessità di qualcunə che sottolinei l’importanza di questi documenti.

Come, ad esempio, questo archivio di una miniera di carbone su cui ho lavorato in Khyshu, un’isola nel sud del Giappone, in cui ci fu un grande sciopero nel 1960. Un bibliotecario decise di raccogliere tutti i volantini che i lavoratori stavano facendo durante lo sciopero,  anche questi erano effimeri. Non era una pratica comune all’epoca.

I collettivi a Bologna invece, forse proprio per la vicinanza dell’università o l’enfasi sul patrimonio culturale, mostrarono questo bisogno di archiviare quasi nel momento in cui le associazioni furono create. Questo per me è molto interessante perché spesso i movimenti sociali riflettono sulla loro storia o sulla loro eredità solo in retrospettiva, e non sempre succede.

Tralasciando ora l’aspetto ideativo della mostra, arriviamo a parlare del suo assetto pratico che si esplicita nel suo allestimento e nel luogo dove si svolge la mostra stessa. Che tipo di allestimento è stato scelto per mettere in mostra degli archivi che hanno così a che fare con la storia del movimento transfemminista italiano?

Originariamente abbiamo avuto l’idea di pensare alle tematiche seguendo dei nuclei perché all’interno degli archivi ci sono molti materiali che si sovrappongono; quando li metti insieme non si riesce a vedere una narrazione o una storia lineari, ma si possono vedere coalizioni o cooperazioni che sono molto interessanti.

Abbiamo deciso di mettere in luce alcune figure chiave, pur consapevoli della complessità che comporta l’enfasi sulle singole personalità. Allo stesso tempo, però, sappiamo quanto le storie individuali siano apprezzate: permettono di trasmettere alle nuove generazioni volti e nomi di chi è stato coinvolto. Siamo partiti da alcuni nuclei tematici legati alle figure selezionate e, successivamente, abbiamo adottato anche un criterio cronologico per organizzare lo spazio espositivo.

Tuttavia, non volevamo limitare la mostra a una semplice celebrazione del passato: volevamo anche suggerire che si tratta di un processo ancora in corso. Ci sono storie non ancora archiviate, buchi negli archivi, ma anche tensioni all’interno della comunità che gli archivi stessi dovrebbero essere in grado di raccontare.

Avevamo anche un catalogo di carte perché volevamo che le persone potessero guardare al materiale storico come a uno strumento per riflettere sulla propria vita, riconoscendola come parte della storia. Abbiamo usato una scatola contenente carte che presentano materiali dagli archivi bolognesi, accanto a una selezione di carte provenienti dalla mostra di Tokyo: lì, le persone avevano scritto ciò che desideravano lasciare ai futuri storici — parole che oggi sono entrate a far parte dell’archivio stesso. Infine, abbiamo aggiunto carte vuote, che i visitatori sono invitati a compilare, contribuendo con la propria storia. Il tutto è disposto attorno a un tavolo circolare, simbolo di una narrazione aperta, orientata alla riflessione e agli archivi del futuro.

Dal momento che molti musei di arte contemporanea stanno iniziando a mostrare un certo interesse verso gli archivi queer e femministi, quale pensi dovrebbe essere il ruolo di questi musei o spazi espositivi in relazione agli archivi?

Inizierò dicendo che sono una storica che per la maggior parte del tempo legge e scrive testi; sono quindi abituata ad avere un bias testuale. Lavorando su questo progetto ho trovato molto interessante vedere come questi archivi non custodiscano solo documenti ma anche elementi effimeri come poster ed oggetti che hanno anche un linguaggio visivo ed estetico. Ci sono questi posters che sono amatoriali ma che allo stesso tempo risultano sofisticati, è interessante vedere questo linguaggio visuale tutelato.

Da storica con un bias documentario, immagino di non averci mai pensato, ma è stato interessante vedere come lo spazio del museo ci permetta di vedere questa estetica.