Le inattese origini della musica country
Lo so cosa state pensando, pront* con le vostre agili dita a sfrecciare su un altro articolo: country queer, perché mi dovrebbe interessare? E immagino quali siano le vostre risposte: prima di tutto non mi piace quella musica da macho cowboy con i banjo: roba vecchia, che c’entro io? Tutte quelle voci stile pecora lamentosa, che si disperano o cantano canzoni alle vacche[1]. Che poi, diciamocela tutta, per quanto apprezzi il suo attivismo LGBTQI+, chi lo ha mai ascoltato un album di Dolly Parton? Lo so, ma se vi accomodate e continuate la lettura, vi spiego perché ho deciso di scriverne.
Per partire dalle basi, il country è una definizione ombrello sotto la quale si collocano molti stili musicali. Lasciatemene citare qualcuno, certo per far vedere che ne so qualcosa, ma pure per portare avanti la mia tesi e intrigarvi almeno un pochino: americana, alternative country, bluegrass, close harmony, honky-tonk, Nashville sound, neotraditional country, zydeco e tutti i sottogeneri derivati dalla fusione con altri stili tipo lo psychobilly e via così. La storia della country music è complessa e pure controversa: l’idea che il country sia infatti espressione di bianchi conservatori è profondamente falsa. Il country affonda profondamente le sue radici nel gospel, nel blues, e in altri generi meno noti, espressione delle culture native americane o di chi ci è stato portato a forza su quel suolo e a forza ci è dovuto restare. Questa musica infatti proviene, almeno in parte, da quella portata da schiav* ner* insieme alla loro sofferenza e qualche strumento. Il banjo, strumento country per antonomasia, deriva proprio da uno strumento africano: molti sono i possibili antenati, certo è che il suono di uno ngoni, o xalam o akoting ne è sicuramente ispiratore, se non precursore. Esprime l’evoluzione della folk music così come si è sviluppata in America, soprattutto tra oppress*, emarginat* e lavorator* che vi hanno proiettato le loro radici e influenze oltre che sonorità e strumenti. Lo vorrei sottolineare: le origini black del country sono innegabili, ma ancora negate. Molt* artist* si stanno spendendo da anni per svelare questo whitewashing e l’appropriazione di questa musica, delle tematiche e dei suoni, trasformati in una musica fatta, suonata e registrata solo da bianch*. Per usare le parole di Rhiannon Giddens, voce intensa del black country e virtuosa del banjo, «solo quello che viene registrato si ricorda», e le prime pubblicazioni di musica country sono bianchissime e niente affatto queer.
La prima vera canzone queer uscita sembra essere I love my fruit della band Sweet Violet Boys. La canzone gioca sui doppi sensi della frutta e del sesso: lo so, poco originale, ma siamo nel 1939! Nessuno della band si è mai dichiarato gay, e quindi c’è la possibilità che la canzone fosse in sostanza più un prendere in giro la mascolinità culturale forzata, che altro.
Altre canzoni con la stessa doppia lettura girarono nei decenni successivi, ma bisogna aspettare il 1973 e la band Lavender Country per parlare di un vero e proprio disco apertamente, politicamente e sboccatamente queer (peraltro prodotto col supporto della comunità queer di Seattle). L’album, che porta il nome della band, fu dimenticato fino a qualche anno fa quando, designato dal nascente country queer come una delle pietre miliari della propria storia, è stato ripubblicato e la ormai matura band è tornata ad esibirsi. Il pezzo intitolato Back in the closet again è di un’attualità disarmante: la necessità di nascondersi e tornare nel closet una seconda volta, a causa dell’ostilità contro i queer degli ambienti più radicali e anti-Vietnam dell’epoca. Vi risuona? La canzone certamente più famosa dell’album, che non lascia spazio ad ambiguità, Cryin’ these cocksuckings tears, suonata da una radio non commerciale e politica di Seattle chiamata KRAB, ha una storia interessante: una versione vuole che la Commissione di controllo sulla comunicazione multò la radio che non poté più mandarla in onda, un’altra vuole addirittura che un agente dell’Fbi si presentasse in radio e ritirasse il patentino di operatore radio al dj. Morale della favola: nemmeno il country è stato tenero con noi queer e ce la siamo dovuta conquistare a suon di arpeggi e ballate.
Nel 1975 esce il primo disco country della band lesbica The Deadly Nightshade, ma già nel 1972 la musicista Maxine Feldman, nell’album dal formidabile titolo Closet sale, concludeva Angry Atthis urlando inequivocabilmente «no longer afraid of being a lesbian». Dagli anni Ottanta con k.d. lang, la sua veloce ascesa e presa di distanza dal genere, avanti veloce fino agli anni Dieci di questo secolo, è stato un susseguirsi di coming out, tra cui quelli eclatanti legati a figure mainstream come Ty Herndon e Chely Wright, e un venire alla ribalta di artist* di ogni queeraggine possibile: corpi, colori, voci e altrettanti modi di interpretare e vivere il genere. Un’esplosione coinvolgente, una rivista online nata per raccontarne la storia e segnalare artist*, uscite, concerti ed eventi, il cui progetto include un podcast e una playlist aggiornata che «si propone di mostrare al mondo, e alla cultura della musica country in particolare, che siamo una forza da riconoscere. Non chiediamo di avere un posto a sedere al tavolo, noi stiamo costruendo il nostro tavolo».
Un assaggio di country queer? → https://tinyurl.com/yc5mzf4x
[1] Questa canzone esiste davvero e si chiama Tune the old cow died on.
Immagine in evidenza: Melissa Carper
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