Brandon Teena nasce a Lincoln, Nebraska, nel 1972 e muore assassinato nel 1993, una ventina di giorni dopo il suo ventunesimo compleanno. La sua vicenda diventa tristemente nota per la matrice lesbo-transfobica dell’omicidio e la strumentalizzazione costruitagli attorno.
Assegnato femmina alla nascita (Afab), cresce in una famiglia e una comunità conservatrici, sviluppando presto un’aperta ribellione verso le aspettative di genere che pesavano su di lui.
Donna Minkowitz, autrice del pezzo che nel ‘94 ispirò il film Boys Don’t Cry, in un recente articolo, cerca di ricostruire parzialmente l’immagine di Brandon, tramite vecchi racconti della madre: pare fosse insofferente alle prediche omofobe del pastore e che sognasse di diventare un disegnatore pubblicitario.
Trasferitosi a Falls City, lontano dal luogo dove tuttǝ conoscevano il suo deadname, spera di poter essere finalmente visto come l’uomo che sente di essere. Va tutto bene fino a quando, a causa di un arresto, la cittadinanza rurale scopre l’assegnazione femminile.
Gli effetti di questa scoperta sono lo stupro e l’omicidio, sui quali le informazioni si sprecano, con tanto di particolari tragici e morbosi. Mentre di Brandon quel che sappiamo non è quasi mai detto con le sue parole, ma solo con quelle degli altri. «Non stavo provando a iniziare una rivoluzione, non ho chiesto di essere sacrificato […]
La mia vita valeva solo questo, essere usato come personaggio in una tragedia fatta da qualcun altro?». Questo è il testo che correda l’opera digitale Brandon, di Shu Lea Chang, realizzata in risposta alla strumentalizzazione operata sul ragazzo.
Lo abbiamo reso un martire ma non lo abbiamo mai ascoltato, tradendo la sua storia ed evitando di raccontare le sue reali necessità. Quelle di una persona trans* senza una rete di supporto né gli strumenti per costruirsi una vita sicura.
Illustrazione di Riccardo Pittioni
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