Sono a Roma, in una nota serata queer, in anticipo rispetto allɜ amɜ che mi ci hanno invitato. Inizia il drag show. «Siamo in uno spazio sicuro», dichiarano le presentatrici, e con verve da attiviste urlano e fanno ripetere alla platea: «No razzismo! No omolesbobitransfobia! No misgendering!»

Poco dopo, vengo selezionatə dal pubblico per salire sul palco a partecipare a un gioco. Accetto. Nel backstage, mi vengono chiesti i miei pronomi: neutri, rispondo. Neutri? Domandano di nuovo. Sì, neutri. La mia risposta è accolta con perplessità. Durante lo show vengo chiamatə al maschile. «No misgendering!»: un proposito durato come un gatto sulla Prenestina.

Ma perché? Da anni sono out come persona non binaria e continuamente mi tocca domandarmi: perché il misgendering, il gatekeeping, la transfobia e l’enbyfobia commesse contro di me non sono riconosciute come tali dalle stesse persone che invece si ergono a paladine della giustizia quando sono commesse contro qualcunə che appare più queer di me?

La risposta è già nella domanda: per loro ho la barba troppo lunga, un’ipertricosi troppo evidente e la voce troppo profonda per essere, verosimilmente, una persona non binaria. Qualcunə pensa che io scherzi, o che non risulti presentabile come enby. Non sono uomo, ma agli occhi dellɜ altrɜ rappresento l’uomo, perciò il mio non-binarismo imbarazza. Io vengo visto, ma non vengo vistə, perché unə come me non si è mai vistə!

Una subdola forma di transfobia si annida nella comunità LGBTQIA+, ivi compresa la comunità trans*-enby. Un’ipocrita transfobia rappresentativa: se a qualcunə non sembri trans*, quella persona pensa, dice o agisce come se non fossi trans*. Se ne ha il potere, può escluderti da qualche forma di cura comunitaria. Resti solə, davanti all’alternativa: detransizionare o assimilarti alle rappresentazioni dominanti della transness. Io non detransiziono e non mi assimilo, ma rivendico fieramente il mio non binarismo. Perciò la mia vita è uno sbattere in faccia allə prossimə che le persone non sono come appaiono.

La transfobia rappresentativa è una delle conseguenze di un fenomeno caratteristico della modernità, che ha posto in essere le condizioni storiche per l’ascesa del capitalismo e che è giunto, oggi più che mai, a determinare profondamente le nostre esistenze: uno spiccato feticismo delle rappresentazioni. Nel mondo contemporaneo, la proliferazione dei mezzi di informazione rende quasi impossibile distinguere la realtà dalle sue immagini, interpretazioni, rappresentazioni. Noi siamo influenzatə a considerare reali soltanto quelle immagini che ci vengono continuamente ri-presentate, ripetute, meglio ancora se dai grossi ripetitori delle antenne delle televisioni e della rete. Disgraziamente, qualcunə in questa comunità è ancora troppo irripetibile. Ed è condannatə all’irrealtà.

L’attivismo queer ha intrapreso varie iniziative nei confronti della transfobia rappresentativa: penso ai numerosi appelli al degender fashion, o alle pressioni mosse all’industria cinematografica per aumentare la rappresentazione trans* nei film e nelle serie tv. Non mi risulta, tuttavia, alcuna azione comunitaria contro il feticismo delle rappresentazioni come problema politico e sociale tout court.

Mi auguro che nel prossimo futuro la comunità trans* divenga l’avanguardia della lotta al dilagante strapotere delle rappresentazioni. Come le donne, le persone razzializzate, con disabilità e di fede non cristiana, noi siamo affettɜ da ingiustizia rappresentativa. Se sappiamo che i media continueranno a produrre rappresentazioni finalizzate al loro profitto, per quale motivo ci limitiamo a chiederne di più giuste e non osiamo liberarci dall’ossessione per le rappresentazioni mediatiche? Come possiamo pensare che un ideale di liberazione dell’essere umano, quale la distruzione del patriarcato, sia compatibile con una società che fa dell’apparenza il criterio sulla base del quale assumere il genere dell’altra persona? 

Certo, non possiamo vivere senza media né senza rappresentazioni, ma possiamo ri-educarci a smettere di affidare alla rappresentazione un valore fondamentale nel riconoscimento della nostra e dell’altrui identità.

Nessunə di noi vede solo con gli occhi. La mia esperienza di non-binarismo non è fatta solo di disforia, ma anche di gioia e gratitudine nei confronti delle moltissime persone, queer e non, che quotidianamente sanno comprendere la mia esperienza e difendere la mia identità, superando pregiudizi radicati. Sebbene io appaia uomo e sia consapevole di apparire tale, sono molte le persone che non si limitano a giudicare la mia apparenza, ma sono disposte ad ascoltarmi e a comprendere il mio vissuto.

La mia storia è la storia di moltissime persone trans. Essa denota la generalizzata difficoltà di ognunə a comprendere le esperienze di oppressione diverse dalla propria. Da luogo di empatia e di confronto, la stessa comunità trans* diventa facilmente terreno di scontro tra persone che subiscono transfobia in modi diversi. Quando bandiremo dai nostri spazi comunitari queste olimpiadi della sofferenza? L’altrə è irriducibile a noi. Se usiamo la nostra esperienza di oppressione come il gold standard in base al quale misurare l’altrə, invece che come un punto di partenza per entrare in una relazione empatica con ləi, nessun avanzamento della nostra condizione sociale sarà possibile. Né gli arcobaleni spalmati sulle vetrine di qualche quartiere gentrificato, né l’apparato concettuale consegnatoci dagli studi di genere sono sufficienti a prevenire le discriminazioni grandi e piccole che quotidianamente subiamo. Le rappresentazioni queer e i concetti della theory non basteranno mai se non saremo in grado di educare innanzitutto noi stessɜ a disconnettere quei concetti dalle rappresentazioni dominanti e a utilizzarli per costruire un orizzonte di comprensione dell’altrə fondato sul rispetto del suo vissuto e della sua volontà.