di Elena Biagini
Il 26 aprile 2025 si è svolta la prima Dyke March in Italia, corteo di lesbiche nel giorno della visibilità lesbica. Dyke March e Giornata Internazionale della Visibilità Lesbica sono entrambe “importate” e poco note nel nostro paese: la prima Dyke March, infatti, fu organizzata a Washington D.C. nel 1993 dalle Lesbian Avengers; la Giornata Internazionale, sebbene abbia ormai una storia ultratrentennale, da noi non è mai divenuta una scadenza riconosciuta. Eppure la visibilità – o meglio la lotta contro l’invisibilizzazione del lesbismo – è centrale per le lesbiche ovunque nel mondo perché i dispositivi di repressione del lesbismo hanno assunto spesso la conformazione del silenzio: per togliere il lesbismo dalla sfera del possibile, le lesbiche sono state cancellate dalla storia e dal presente, persino lo stigma è risultato meno visibile di quello a cui sono state sottoposte altre soggettività.
Adrienne Rich, teorica e poeta americana, nel 1980 nel saggio Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, scrive che la cancellazione delle lesbiche dalla storia è un potente strumento per affermare la cosiddetta eterosessualità obbligatoria, ossia il processo che naturalizza e istituzionalizza l’eterosessualità.
La visibilità è la pratica fondamentale per opporsi alla cancellazione per tutte le soggettività LGBTIQ+, per le lesbiche in modo ancor più determinante. In Italia anzitutto è con un atto di visibilità lesbica che nasce il movimento omosessuale: Mariasilvia Spolato l’8 marzo 1972 – ancor prima della manifestazione di Sanremo – è nella piazza chiamata a Roma dal collettivo femminista di via Pompeo Magno con il cartello “liberazione omosessuale”. Il Fuori, la prima organizzazione omosessuale italiana, a cui Spolato aderisce fin dalla sua fondazione, porta l’idea del coming out fino nel nome, eppure le persone visibili al suo interno sono poche. E poche rimangono, per ben due decenni, le persone che oggi diremmo LGBTIQ+ visibili, nel Fuori, nel movimento frocio rivoluzionario, nel movimento femminista: per tutti gli anni ’70 le poche lesbiche delle organizzazioni omosessuali polemizzano con le tante dei collettivi femministi accusandole di nascondersi dietro le compagne eterosessuali. D’altro canto, per molte femministe la presenza dichiarata delle lesbiche nei loro collettivi è problematica: il posizionamento romperebbe la sorellanza di tutte le donne; ma la visibilità del lesbismo fa paura soprattutto per l’impatto all’esterno, per la mostrificazione inflitta in un contesto in cui lesbica è un insulto rivolto a ogni femminista. Il nascondimento del lesbismo da parte delle femministe è un fatto non solo italiano tanto che Adrienne Rich nel saggio citato sopra stigmatizza questo atteggiamento, lo ritiene un rinforzo dell’eterosessualità obbligatoria e quindi del patriarcato.
Per il lesbofemminismo italiano, il primo movimento autonomo di lesbiche nato nel triennio 1979-1981, che sceglie la pratica del separatismo, non cancellazione del lesbismo significa soprattutto visibilità interna, ossia il dirsi lesbica nei luoghi di donne che implica anche la fondazione di collettivi lesbici e molto presto lo scontro con il pensiero della differenza.
Gli anni ’90 sono il decennio della visibilità: si aprono con la strutturazione della presenza lesbica in Arci Gay (il Coordinamento nazionale Arci Gay Donna), la figura di Graziella Bertozzo che sceglie anche la visibilità mediatica per poter raggiungere tutte le lesbiche, le grandi kermesse separatiste (la prima settimana lesbica è nel 1991) e si chiudono con il World Pride di Roma 2000 dove la visibilità delle lesbiche insieme alle altre soggettività è ormai di massa.

L’urgenza della visibilità nella generazione di lesbiche che si affaccia alla politica negli anni ’90 appartiene quasi a tutte, qualsiasi siano le forme e i posizionamenti scelti, e le piazze ne sono la dimostrazione. Nel 1994, per la prima giornata dell’orgoglio, una parte del movimento omosessuale era ancora titubante, temeva il flop, in quel contesto serpeggiava il pregiudizio che le lesbiche in piazza sarebbero state poche. Un pregiudizio che in realtà non era supportato da niente, se non dal silenziamento patriarcale che ha cancellato le lesbiche anche là dove c’erano: le lesbiche il 2 luglio 1994 a Roma erano tantissime e molte furono anche quelle che scelsero uno spezzone separato dietro allo striscione “Le lesbiche non tornano indietro”. Spezzoni separati furono riproposti in molti pride, da Bologna nel 1995, a Napoli nel 1996, dietro lo striscione “Le lesbiche irrompono” che sanciva proprio l’irruzione sulla scena pubblica ormai avvenuta.
In quegli anni la visibilità lesbica fu portata anche in altre piazze: alla manifestazione femminista del 3 giugno 1995 “La prima parola e l’ultima”, con uno spezzone lesbico animato da una decina di gruppi; nello stesso anno il 30 settembre quando il movimento delle lesbiche e dei gay con il corteo “Alziamo la testa” riuscì a portare in piazza a Verona una manifestazione molto eterogenea contro quello che purtroppo fu solo l’inizio della saldatura tra fascisti, Lega e integralisti cattolici che oggi chiamiamo no-gender.
Scendere in piazza nel 2025 per la Dyke March significa visibilità per una parola e un posizionamento di nuovo parzialmente oscurati.
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