«COP26, accordo raggiunto. Nuovo obiettivo 1,5 gradi. Ma India frena sul carbone». «Questo patetico e floscio straccio di documento». Sono due dei migliaia di riassunti giornalistici sulla Conferenza sui cambiamenti climatici di Glasgow pubblicati all’indomani della sua chiusura. Il primo è il titolo di un pezzo dell’ANSA, il secondo è lo sputo di rabbia di George Monbiot, il corrispondente da Glasgow del Guardian. A leggerli così viene da chiedersi se i loro autori abbiano assistito allo stesso evento. Ma si tratta solo dell’ultimo capitolo di una narrazione, quella attorno al clima, che sempre più si sta polarizzando agli estremi, rendendo sempre più difficile separare la sostanza di ciò di cui si parla dai proclami politici.
Il bicchiere mezzo pieno
Una conferenza a cui partecipano 196 paesi è sempre un esercizio di compromesso tra vari interessi. Non può essere altrimenti. Ma pensare che le diplomazie di così tanti governi possano davvero trovare la quadra in 12 giorni è un pensiero ingenuo. Quello che non emerge dai media è il lavoro svolto nei mesi e negli anni precedenti a Glasgow.
In questo senso, allora, il documento siglato alla COP26 è un miglioramento di quanto visto all’edizione precedente, quella di Madrid del 2019, quando ci si alzò dal tavolo senza un accordo. Questo bisogna riconoscerlo e almeno due aspetti vanno sottolineati. Il primo è che alla Casa Bianca non c’è più Donald Trump, ovvero un presidente che aveva fatto uscire gli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sul Clima – firmati dal suo predecessore, Barack Obama – e che ha flirtato per tutto il mandato con posizioni negazioniste e complottiste. Quando una potenza economica come gli USA si siede al tavolo negoziale (con reale interesse a trovare un accordo) trascina con sé anche altri indecisi.
Il secondo aspetto è che dal 2019 a oggi è aumentata la forza dei movimenti civili per l’ambiente e il clima. Non c’è solo Greta Thunberg con i Fridays for Future, ma la società si è organizzata in una marea di istanze sociali e politiche che hanno contribuito a orientare l’opinione pubblica. Il risultato positivo è che oggi i politici di tutto il mondo sanno che non possono tradire la causa ambientale perché sarebbe un boomerang per la propria immagine pubblica, soprattutto a sinistra.
Sul piano delle decisioni effettivamente prese, c’è anche da registrare un inedito, ovvero che Cina e India, pur con tutti i limiti contraddittori delle loro posizioni, hanno proposto una data limite per raggiungere gli obiettivi. Certo, il 2060 e il 2070 rispettivamente, non sono realmente compatibili con le necessità operative per contenere davvero la temperatura media globale entro +1,8 °C nel 2030, ma è un passo avanti nel coinvolgimento attivo di paesi che per dimensioni e ruolo economico possono fare la differenza nel bilancio ecologico mondiale.
Il bicchiere mezzo vuoto
Ma che accordo è venuto fuori? Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) e altri think tank, le politiche approvate a Glasgow non consentiranno di contenere il riscaldamento globale entro 1,8 °C sopra i livelli preindustriali, ma vedranno probabilmente un aumento di 2,7 °C. Queste analisi fanno emergere due aspetti deleteri delle trattative diplomatiche. Il primo è che la tempistica dell’azione politica internazionale potrebbe non essere compatibile con le reali esigenze attuali. La seconda questione è la discrepanza tra quanto si dice e quanto si fa effettivamente. A parole tutte le delegazioni di Glasgow erano preoccupate per il clima e per il futuro, ma all’atto pratico l’idea di intervenire più profondamente sul piano normativo è smorzata dalle pressioni esercitate da molti poteri, a cominciare da quello politico e quello economico.
La querelle diplomatica tra la maggioranza delle delegazioni e l’India, inoltre, evidenzia un altro aspetto disarmante delle COP. La mancanza di una presa di coscienza comune, che si traduce in questo come altri esempi di scontro fra nazioni. Non solo il clima e l’ambiente non sono temi che hanno confini e conseguenze nazionali, ma queste ostilità evidenziano la mancanza di senso di appartenenza allo stesso gruppo. Quel senso di «essere tutti sulla stessa barca» espresso da molti cartelli che si vedono nei cortei dei movimenti, ma anche l’incapacità di questa classe politica mondiale di sviluppare un senso di specie, come lo chiama l’antropologa Sara Hejazi. Indipendentemente da dove viviamo, da quello in cui crediamo e da quello che desideriamo, siamo tutt* Homo sapiens, tutt* fratelli, sorelle, zie e cugini. Eppure di fronte a una minaccia globale non riusciamo a sviluppare un senso di reale comunanza di intenti e continuiamo a ragionare come se i confini tra i paesi avessero lo stesso senso che avevano due secoli fa. Ma l’atmosfera è una sola e quella che stiamo vedendo può essere facilmente confusa con una guerra tra poveri di spirito.
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