di Marco Falconieri, La Carovana Onlus

L’alcol è una delle sostanze psicoattive più consumate ed è anche una di quelle di cui si percepisce meno la pericolosità. È molto utilizzato in contesti sociali e il suo uso è talmente normalizzato che i primi strumenti di riduzione dei rischi, ad esempio il non bere a stomaco vuoto, vengono appresi in famiglia, ancor prima che nel gruppo dei pari. In Italia è diffuso e normale assumere alcolici sotto il limite legale dei 18 anni e, a volte, il primo contatto avviene in giovanissima età, con il classico sorso che il parente di turno (genitori, nonni, zii, ecc.) condivide per brindare in un’occasione di festa.

Facendo qualche ricerca nella letteratura scientifica internazionale, emerge che la prevalenza dell’utilizzo di alcol nella popolazione LGBTQIAP+ è più alta che nella popolazione generale, come è più elevata la possibilità di sviluppare un problema di uso problematico o di abuso. Molte sono le ricerche svolte negli Usa e in Gran Bretagna, mentre a livello italiano, tranne rarissime eccezioni, non si trovano focus specifici che si concentrino sulla comunità LGBTQIAP+. Anche consultando i documenti istituzionali, sia europei che italiani, che riportano i dati sui consumi di alcol e altre sostanze psicoattive o sul numero di pazienti in cura presso servizi sanitari per problematiche legate alla dipendenza, non emergono specifici approfondimenti sulle persone LGBTQIAP+. Per quello che riguarda l’Italia, quindi, è davvero complicato dare i numeri. Tendenzialmente ci si accoda alle ricerche fatte all’estero, da una parte prendendo per buone alcune conclusioni, ma dall’altra tenendo presente quanto i fattori sociali, economici, culturali e politici determinino un certo tipo di fotografia, che non è, perciò, assimilabile per intero a un altro contesto.

Due ulteriori osservazioni sono doverose rispetto a questo tema. Prima di tutto è necessaria una specifica rispetto alla sigla LGBTQIAP+, che racchiude al suo interno una fetta di popolazione assolutamente non omogenea. Se è vero, infatti, che ci sono molte ricerche focalizzate sulla popolazione gay (e in particolare Msm), è altrettanto vero che su quella lesbica e bisessuale si trova meno letteratura. Riguardo poi alle persone trans*, non binary e tutta la galassia espressa dal “+” della sigla, ci si trova davanti a una carenza di studi ancora maggiore. La seconda specifica è importante per interpretare nella giusta prospettiva i dati sulla prevalenza dell’uso e dell’abuso di alcol nella popolazione LGBTQIAP+. È fondamentale, quindi, ricordare che il numero di persone che sviluppano problematiche legate a questa sostanza è sicuramente una piccola parte della totalità di chi consuma alcol in modo funzionale. A questo è giusto aggiungere che spesso i comportamenti a rischio rispetto all’assunzione di alcolici sono anche legati all’età e al contesto: è facile che una persona che beva in modo eccessivo in giovane età cambi il suo comportamento con il passare degli anni, come è altrettanto facile che in un bar o in un club si tenda a bere di più.

Ci sono delle cause specifiche che espongono maggiormente le persone LGBTQIAP+ al rischio di abusare di alcol? Tenuto conto che una persona che si identifica in una di queste soggettività beve per lo stesso motivo di chiunque, quindi per divertirsi, per gestire lo stress, per adattarsi alla consuetudine sociale, per combattere la noia, per migliorare le proprie prestazioni sociali, è però anche vero che esistono una serie di fattori (personali, familiari, socio-ambientali) che possono essere protettivi o predisponenti ai comportamenti a rischio. Nel caso della popolazione LGBTQIAP+ la differenza principale rispetto alla popolazione generale è sicuramente quella di far parte di una minoranza, quindi di vivere in una società che non riconosce, e molto spesso discrimina, chi non corrisponde alla normalità codificata. Il minority stress è quella particolare forma cronica di stress psicologico a cui sono costantemente sottoposte le persone appartenenti a gruppi minoritari, derivante dalla stigmatizzazione sociale che colpisce il proprio gruppo di appartenenza. L’essere esposti a un numero significativamente maggiore di fattori di stress incide in modo importante sul benessere della persona, aumentando così la possibilità di trovarsi in situazioni di sofferenza psicofisica.

La più elevata esposizione della popolazione LGBTQIAP+ al rischio di problematiche legate all’abuso di alcol viene ricondotta proprio a questa maggiore presenza di fattori di stress. L’omolesbobitransfobia interiorizzata, lo stigma percepito e le esperienze vissute di discriminazione e violenza possono creare stati emotivi difficili da gestire, che attivano, a volte, comportamenti finalizzati alla ricerca di una soluzione rapida alla sofferenza. Il fatto che l’alcol abbia un effetto ansiolitico e provochi disinibizione comportamentale può dare l’illusione di trovarsi proprio davanti la soluzione per gestire i sentimenti negativi verso sé stessi, la propria identità e la propria sessualità. La frase fatta «bere per dimenticare» ha un piccolo fondo di verità: l’alcol agisce nell’immediato come un potente anestetico rispetto alle sensazioni di ansia, disagio, imbarazzo, vergogna ed è anche per questo motivo che può diventare difficile gestirne il consumo, soprattutto quando si viva, consapevolmente o meno, in modo faticoso l’interazione con sé stessi e con gli altri a causa della stigmatizzazione sociale.

Per concludere forse bisognerebbe anche chiedersi: quanto incide il minority stress sulla disponibilità delle persone LGBTQIAP+ a prendersi cura di se stesse, rivolgendosi, quando serve, ai servizi sanitari competenti? E inoltre: come vengono percepiti questi servizi dalla popolazione LGBTQIAP+ rispetto all’accoglienza delle proprie specificità?