IL ROJAVA, L’ITALIA E LA SORVEGLIANZA SPECIALE
Il 17 Marzo 2020 il tribunale di Torino ha emesso un decreto di Sorveglianza Speciale nei miei confronti. Sono un «individuo portatore di pericolosità sociale» (al maschile ovviamente). Devo attenermi a una serie di indicazioni vaghe e ampiamente interpretabili, tipo «vivere onestamente, rispettare le leggi», ma anche parecchie limitazioni molto chiare e concrete. Da sorvegliata speciale, infatti, non posso partecipare a pubbliche riunioni di alcuna sorta (concerti, presentazioni, conferenze, manifestazioni…); dalle 18.00 alle 21.00 non posso «accedere agli esercizi pubblici o ai locali di pubblico intrattenimento». Quando arrivano le 21.00 devo essere già rientrata a casa puntuale e fino alle 7.00 del mattino seguente non sono più autorizzata a uscire. Mi hanno ritirato patente e passaporto e la mia carta d’identità non è valida per l’espatrio. Ovunque vada devo portare con me un libretto rosso, la “carta precettiva” sulla quale l’agente di turno, in commissariato o altrove, annota dove sono e cosa faccio. Questa è la mia vita da quasi un anno. Ho ricevuto la notizia durante la fase più acuta della pandemia, nel primo lockdown, dai giornali prima che dal mio avvocato, dopo un processo durato 14 mesi. Era il giorno precedente l’anniversario della caduta in battaglia di Tekoşer Piling, Lorenzo Orsetti, partigiano internazionalista e amico prezioso. Il 12 novembre 2020 c’è stato il ricorso in appello, respinto. La misura è confermata fino a marzo 2022.
La Sorveglianza speciale proviene da quell’oscuro universo che sono le misure di prevenzione. Esse abitano in una zona grigia della giurisprudenza e il loro inquadramento giuridico è incerto, se non del tutto assente. Nate a fine ‘800, vengono usate massivamente durante il regime fascista, per poi essere traghettate nell’ordinamento costituzionale (con il quale sia in Italia che in Corte Europea sono state ritenute incompatibili). La persona coinvolta in un procedimento di prevenzione non viene ritenuta “colpevole” o “non colpevole” di aver commesso un fatto specifico – come accade nell’ambito penale – ma viene ritenuta “pericolosa” o “non pericolosa” in rapporto al suo precedente agire che diviene quindi “indice rivelatore” della possibilità che metta in atto condotte antisociali in futuro. Non si ragiona più in termini di “oltre ogni ragionevole dubbio” bensì di ipotesi. Quindi quando mi chiedono cosa abbia fatto perché la Procura e il Tribunale di Torino mi abbiano costretto alla sorveglianza speciale, se dovessi citare il decreto del Tribunale risponderei: per la mia «costante, pervicace, mai sopita opposizione, nei confronti di provvedimenti delle pubbliche autorità».
Ma partiamo dall’inizio, quello giudiziario almeno. Il 3 gennaio del 2018 ho ricevuto una telefonata: Davide Grasso, amico ed ex-combattente nelle Ypg, mi informava che la Procura aveva depositato una richiesta di sorveglianza speciale, per me e altre quattro persone: lui, Jacopo Bindi, Paolo Andolina e Fabrizio Maniero. Venivamo chiamati a processo perché tutti e cinque, tra il 2016 e il 2018, ci siamo uniti alle strutture – militari o civili – della rivoluzione partita dal Rojava, in Kurdistan, oggi estesa nei territori dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est (Aanes). Tutti e cinque avevamo sentito parlare della resistenza di Kobane contro l’Isis, delle Ypg e Ypj, l’esercito rivoluzionario che aveva fermato lo Stato Islamico. Volevamo conoscere meglio il Confederalismo Democratico, il sistema politico teorizzato da Abdullah Ӧcalan con cui si organizzano più di 5.000.000 di persone nei territori dell’AANES. Quella confederale è una società organizzata intorno al principio di autonomia delle donne, basata su forme di governo dal basso e aderente valori di tipo ecologico, valori che avevamo già fatto nostri in Italia, insieme a milioni di persone. Ad accomunarci, è stata la scelta di partire per conoscere quella realtà e sostenere quella causa. È grazie alla rivoluzione confederale se in un Paese devastato da anni di guerra qualcuno ha potuto avere un po’ di sollievo, è grazie alla rivoluzione confederale se in Kurdistan e nell’Aanes la condizione delle donne è mutata completamente, cambiando tutta la società, in meglio. I popoli che hanno scelto il Confederalismo Democratico sono riusciti a costruire un sistema alternativo mentre, allo stesso tempo, combattevano in prima linea un nemico feroce come Daesh, che ai tempi sembrava inarrestabile. Io sono arrivata in Kurdistan a fine settembre 2017 insieme a Jacopo, come parte di una delegazione civile. Altri gruppi di persone prima di noi erano partite per portare solidarietà e fare informazione, tutte esperienze dal basso, un lavoro prezioso e necessario. Del resto in questo Paese leggere i media generalisti non ha mai aiutato a orientarsi nello scenario geopolitco mediorientale e globale. Una volta lì, ho semplicemente seguito la mia coscienza, mi rendevo sempre più conto che quella era una battaglia anche nostra e mi trovavo sempre più a disagio con l’idea di lasciarne gravare tutto il costo su qualcun altr*. Così ho scelto di non tornare il giorno previsto, ma di rimanere per unirmi alle Ypj, le unità di difesa delle donne.
Quando sono partita, portavo con me un bagaglio femminista e transfemminista, ecologista e No Tav, antifascista, anticapitalista e partigiano, riempito in anni di partecipazione alle lotte del territorio in cui vivo. Questo è l’elemento decisivo che ha portato la Procura di Torino a mettermi sotto sorveglianza: il Procuratore Generale in udienza d’appello ha detto che ho una «mentalità da soldato» già ampiamente dimostrata in Italia e che la mia partecipazione alle Ypj è un’aggravante, perché adesso sono pure addestrata!
Questo processo è cominciato sostenendo l’ipotesi che fossimo un potenziale pericolo perché introdotti all’uso delle armi, ma il suo esito chiarisce le reali motivazioni per cui è stato condotto; manifestazioni No Tav, presidi contro i rapporti tra Italia e Turchia, contestazione di gruppi dichiaratamente fascisti. Nessuno tra questi episodi è neanche lontanamente assimilabile al teatro di guerra siriano. Inoltre, se è vero che un fucile è un fucile, dove e perché lo si imbraccia credo faccia tutta la differenza del mondo. Ma questo è stato evidente anche alla Procura che ha cambiato strategia in corsa, dopo aver inizialmente tentato di equiparare chi si è unito all’Isis a chi, come nel mio caso, si è incontrovertibilmente schierata contro. Quel che a queste persone sfugge probabilmente (tra le varie cose) è il senso del limite, della responsabilità che hanno e direi anche un po’ della sana vergogna. Quella che chiunque dovrebbe provare di fronte alla strumentalizzazione di una così complessa e tragica pagina di Storia, che è tutt’ora in corso di scrittura. In questi mesi la situazione nell’Aanes è precipitata di nuovo, dall’invasione della Turchia nell’ottobre ‘19. Ain Issa è di nuovo fronte di guerra. In molti territori si è tornati alla situazione che c’era con Isis e anche in Europa gli attacchi sono ricominciati. Di fronte a quello che succede ogni giorno in Italia e nel mondo, non posso far altro che pensare, nel mio piccolo, mentre leggo il decreto di Sorveglianza, che c’è molto da fare. Penso agli insegnamenti che ho ricevuto e a come posso condividerli e usarli per rimboccarmi le maniche e fare la mia parte costi quel che costi, un passo alla volta, festina lente. Ma soprattutto leggo l’equivalenza tracciata da Tribunale e Procura in questo decreto (opposizione all’autorità = pericolo sociale), e so che arrendersi non è un’opzione.
Pubblicato sul numero 61 della Falla, gennaio 2021
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