Madre filippina e padre etiope, Jonathan è nato a Roma e vive a Bologna da un anno: si è trasferito per seguire un master in architettura umanitaria ed è poi rimasto per il forte senso di accoglienza e di comunità che ha trovato. Ma per lui il clima bolognese non era del tutto una novità. Più volte in città, sia per visitare una cara amica, sia per il suo ragazzo, un frequentatore della Gilda del Cassero, di cui era volontario. È stato attraverso una sua t-shirt che Jonathan conosce La Falla: «Quattro o cinque anni fa portava la maglia con l’illustrazione ispirata al Quarto Stato ed è stato amore a prima vista». Se fu per la maglietta o per il ragazzo che la portava, non ci è dato sapere.

Ti sei avvicinato così al nostro giornale, per i mitici poster della Falla?

Ci è voluto ancora un po’ di pazienza: ero ancora a Roma, nel pieno degli anni universitari. Le mie toccate e fuga a Bologna non mi permettevano di vivere appieno né la realtà del circolo, né la vita di redazione che sta dietro a ogni numero. Seguivo molto poco il giornale di per sé, ma quell’illustrazione mi aveva conquistato, insieme alla potenza del poster Urleremo anche questo silenzio, pubblicata in memoria della strage di Orlando. Quando mi sono trasferito a Bologna ho sentito l’esigenza di fare attivismo in un modo che mi appartenesse e qualche mese fa mi sono imbattuto in un post della Falla, su Instagram, che invitava a partecipare a una delle riunioni del lunedì. Ho colto la palla al balzo. Con voi, spoiler, uscirà anche qualche articolo scritto da me, ma il mio strumento preferito rimane il disegno. Sto ancora esplorando il mondo dell’illustrazione in cerca della mia dimensione: ora lavoro part-time come merchandiser di piante e come disegnatore/renderista architettonico ma il mio sogno è quello di affermarmi come illustratore di architetture. La strada è lunga ma… un passo alla volta.

L’essere sfaccettatǝ e in continua costruzione delle mille parti di sé è il tema che ti ha suggerito la redazione per febbraio: come ti sei posto davanti a questo argomento?

Come faccio sempre quando voglio esprimere un messaggio attraverso ciò che disegno, prima ne ho scritto. Non ho idea di quanto sia comune come prassi, ma per me è uno step fondamentale per mettere meglio a fuoco cosa voglio comunicare. Mi chiedo: che messaggio voglio passare? La mia testa è una caotica matassa di pensieri – a modo loro, anche ordinati – ma è facile perdermici e scrivere mi aiuta a fissarli, a osservarli e a riconoscerli per definirne meglio i dettagli e i collegamenti. In genere, mentre questo processo di messa a fuoco si anima, cominciano a emergere gli elementi compositivi dell’immagine che poi, però, definirò solo nella fase di disegno effettiva. Per esempio, in questo caso avevo ben chiaro che il puzzle sarebbe stato il tema chiave, ma solo disegnando si è declinato, tra le altre cose, come una pioggia di tasselli.

Una figura umana in primo piano, protagonista del disegno, eppure non definita, intenta a ragionare sui tasselli di un puzzle che la compongono: la montano e la smontano contemporaneamente?

La poliedricità dell’identità, questo il tema che mi è stato proposto. Ho scelto di interpretarlo come una persona non definita – né definibile – intenta a gestire i pezzetti del suo puzzle; ho cercato di rendere impossibile stabilire in modo univoco se stia mettendo insieme i pezzi o se li stia togliendo per decidere se disfarsene o indossarli di nuovo. In un primo momento, volevo rappresentare tutta la pelle composta dai tasselli del puzzle; l’effetto finale, però, non mi entusiasmava. Avevo, invece, ben chiaro che gli abiti sarebbero stati integri perché, per quanto abbiano un forte potere identitario, nel puzzle dell’identità li immagino come dei tasselli a sé stanti, da assemblare a nostro gradimento, ma che hanno già forme e colori definiti. Alla fine, ho optato per ridurre il numero dei pezzi di puzzle sulla pelle – forse anche a suggerire che alcuni aspetti della nostra identità non si prestano a questo processo di esplorazione/selezione – e ho lasciato piccole aperture nella figura, da cui esce (ed entra) della luce. C’è tanto dentro di noi, un universo interiore splendente e luminoso – eppure, a tratti insondabile – che è molto più dell’insieme dei pezzi del nostro puzzle.