I LEGAMI DI LUCY
Montaggio biografico attorno ai legami di Lucy, classe 1924: la fatica di relazionarsi con un mondo che ti chiama Luciano, i rapporti interrotti dalla guerra, l’assenza di contatto umano nel campo di sterminio a Dachau e le famiglie elettive tra Bologna e Torino.
All’inizio è un po’ diffidente e imbarazzata, poi iniziamo a parlare di Charlot e si scioglie, mi porta un caffè su un vassoio con tazzine barocche. Mi tengo la voglia di andare a fumare e inizio a scrivere.
“Appena mi sono accorta di essere al mondo ho capito che c’era qualche problema: quelli che mi incontravano dicevano a mia madre ‘Ma che bella bambina che c’ha signora!’. Solo che io mi chiamavo Luciano, e vivevo a Fossano (CN), dove mio padre faceva la guardia carceraria. Mentre il fascismo si stava radicando io ero uno strano bimbo che faceva cose da femmine, odiava i soldatini e giocava coi ragazzini alla mamma e al papà, senza mai fare il papà. Dove abitavamo, al piano di sotto c’era un pittore che chiese ai miei se potevo posare per il ritratto di un putto; mi spogliò, mi fece avvicinare, prese la mia mano e se la mise lì, dicendomi di fare così e così, piano, forte… Mi diede un regalino e mi disse di non dire niente. Avevo circa sette anni, mi sembrava strano ma non sapevo neanche cosa significasse, capii solo da grande che era un pedofilo.
Nel ’38 mio padre fu trasferito nel carcere minorile di Bologna e lì, contentissima in questo mondo nuovo e così grande, trovai subito il mio tempio, ragazzi effeminati come me (due camerieri, un fornaio, un pasticciere e un tappezziere). Erano più di una famiglia: ci comprendevamo, ci truccavamo, mettevamo la lacca e un mucchio di anelli tutti falsi, ci scambiavamo gli amanti e mangiavamo assieme in una bettola di trattoria dove pagava chi aveva fatto più marchette.
Con la guerra mi mandarono alle armi, dove imparai a usare la 20mm per i tedeschi; scappai quasi subito di lì perché ero pacifista, ma mi trovarono qualche mese dopo con un ufficiale tedesco in albergo e mi spedirono in un campo di lavoro in Germania. Scappai presto anche da lì assieme a un ragazzo triestino, Giorgio, con cui ero diventata amica. Ci ferimmo scavalcando il reticolato del campo e corremmo nel nulla tutta la notte. Arrivammo in una stazione e ci infilammo in un vagone merci che ci portò in Baviera, dormendo appiccicati come un essere solo, ricordando il passato come se fossimo vecchi. Rubammo una torta e del rosolio da un pacco e ci mettemmo sotto un treno per la Svizzera, aggrappati per non essere presi. Lui resistette per una stazione, poi salì e si nascose in bagno. A un certo punto sentii il treno fermarsi, una corsa e poi degli spari. A Innsbruck ci sono arrivata io sola.
Alla frontiera una guardia mi trovò sotto al treno e dopo botte, calci e un interrogatorio mi spedirono al campo di concentramento di Dachau dove sono rimasta per quattro mesi. Ci marchiarono subito con la creolina sulla testa, sotto le ascelle e in mezzo alle gambe.
Molte cose sento il dovere di raccontarle, qualcuna l’ho voluta dimenticare, altre non si possono descrivere. Si poteva morire ogni giorno: per denutrizione, bruciati sui fili dell’alta tensione, col monossido, nei forni, per gli esperimenti genetici o per puro sadismo. La mattina c’era sempre una coperta più alta: chi moriva di diarrea si gonfiava e dopo qualche ora rimanevano solo la pelle e le ossa.
A nessuno fregava niente di tutto e di tutti, non ricordo un solo nome, un gesto d’affetto, una chiacchierata. Eravamo distrutti, senza desideri né voglie, degli esseri amorfi senza vitalità che camminavano per procurarsi un po’ di pane. Non c’era il tempo e neanche la volontà per qualsiasi forma di contatto umano: non parlavi, non ridevi, non pensavi, e quando pensavi, pensavi solo a mangiare e qualche volta a scappare, e dopo qualche mese aspettavi e volevi solo la morte. Lavoravamo per essere uccisi, e alla fine speravi che tutto venisse distrutto.
Mentre stavano per arrivare gli alleati, Hitler ordinò di evacuare il campo o, se fosse tardi, di sparare a tutti. Una pallottola mi colpì alla gamba dopo essere uscita dal petto di un uomo, che mi restò addosso morto per diverse ore. Mi svegliai qualche giorno dopo nell’accampamento americano; non potevo alzarmi e fu la mia fortuna, perché molti feriti, nel vedere tutto quel pane dopo tanta fame, si ingozzarono e morirono subito perché lo stomaco non era più abituato.
Nel Dopoguerra facevo le marchette coi soldati alleati e lavoravo negli alberghi. Poi andai a Roma e per tre anni feci il varieté in un numero di danza classico-acrobatica, con una ballerina ungherese (che voleva convertirmi, l’illusa!). Poi lavorai a Bologna in una tappezzeria, ed ero così portata che in un mese ero diventata più brava del proprietario; decisi così di aprirne una per conto mio a Torino, che era nel pieno del boom economico e dove mi trovavo più a contatto con la mia gente. Guadagnavo bene, ma spendevo di più: parrucche, scarpe, vestiti, grandi feste in casa (dove al piano terra avevo ricavato una pista da ballo), un porto di mare insomma, con tanta voglia di vivere, di provare, di divertirsi.
A Torino ricominciai a vivere veramente e recuperai la relazione più importante che avevo perduto a Dachau, quella con me stessa. Iniziò anche la mia transizione: andai con il mio gruppo di amiche a Londra per operarmi, e decisi che il mio nome sarebbe stato Lucy. Dopotutto era come Luciano, solo che avevo tolto il culo dal nome.
pubblicato sul numero 2 della Falla – febbraio 2015
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