Da Supernova, Chappell Roan è riuscita a esplodere nell’immaginario pop – e camp – attuale con l’album The Rise and Fall of a Midwest Princess. Più che un’ascesa, però, il suo appare come un viaggio, a partire da luoghi periferici, su una via dissestata, lastricata di domande che somigliano ad accuse, alla ricerca della propria identità, anche solo artistica. “Solo”, come se la queerness concedesse una divisione categoriale tra arte e vita, pubblico e privato, come se non stesse giocando a bucherellare le membrane che fanno sembrare l’alterità distante. Chappell Roan, il nome della sua drag persona, percorre questa strada di mattoni gialli per la prima volta, ma non è la prima a farlo: molte orme prima di lei hanno trasformato il percorso, rendendolo del colore delle suole. La principessa del Midwest è, infatti, una regina, una drag persona, figlia drag riconosciuta dell’artista Sasha Colby. L’adozione del linguaggio drag per la propria espressione artistica ed estetica ha destato lo stupore, l’indignazione e la confusione di un’audience a cui è stato raccontato (start your engine!) un unico modo di fare ed essere drag: «Uomini che si travestono da donna». 

Sappiamo che avete cercato così di spiegarlo alle nonne, ma non dovremmo accontentarci di nonne che hanno una visione monolitica e binaria del drag. La cultura drag si basa su un gioco radicale di problematizzazione e parodia dei generi sessuali. E, elemento ancor più radicale e perturbante che tende a essere rimosso anche all’interno della comunità, la sua esistenza è una bomba a orologeria piazzata nel cuore della postmodernità, dove risiede il concetto di identità. 

Lungo il tragitto, Roan incontrerà tre compagni che le infesteranno la ricerca identitaria: lo spaventapasseri senza cervello, che le ricorderà che le donne non fanno drag; il leone codardo, che sosterrà la possibilità di fare drag di Roan a patto che giochi con la mascolinità; e il taglialegna senza cuore che la escluderà dal drag in quanto arte legata all’omosessualità maschile. Nessuno di loro è un antagonista, anzi condividono con Roan una stessa progettualità: le violenze, lo ricordiamo anche a Chiara Valerio, non provengono sempre dai brutti e cattivi che giudichiamo altro da noi. I sistemi di potere prolificano, si riproducono, serpeggiano in larga e piccola scala, anche nelle comunità che cercano gradi di libertà via via maggiori. Da qualche parte oltre l’arcobaleno, troverà le altre queen AFAB[1], un corpo collettivo transnazionale che ha già e sempre dovuto affrontare una discriminazione glitterata, dalle migliori intenzioni e dai fatti peggiori. 

«Le donne non fanno drag» è sicuramente tra le frasi che ossessivamente vengono ripetute alle queen AFAB. Facciamola a brandelli: cosa significa “donna”? E cosa vuol dire “donna” in un ecosistema, quello drag, che s’impiglia volutamente in una ragnatela di cortocircuiti di genere? Allontanare il drag dai corpi femminili è, innanzitutto, una strategia di invisibilizzazione di tutte le persone trans o non binarie che si sono assunte la responsabilità del portato politico e trasformativo del drag: nei contesti ballroom, nelle rivolte della comunità LGBTQIA+. Persino nei confini sfumati tra dive, da Mae West a Lady Gaga, e queen. Perché nel linguaggio drag il referente, l’icona conflagra nella performance, l’ibridazione tra diva e artista concede la perdita di ogni originale. Del concetto stesso di originale. 

«Be’ in quanto donna dovrebbe fare il drag king», recita il leone dal poco coraggio che tende a tassonomizzare i corpi drag in ottica binaria, così da ricevere una rassicurazione paradossale sui genitali dell’artista. L’imposizione di esplorare e ipervisibilizzare l’uno o l’altro genere, naturalizzandoli, e soltanto in base all’inversione del proprio genere, peggio, spesso quello assegnato, vuol dire tentare di regolamentare ciò che intende sfuggire a ogni norma, perfino quelle sacre del genere. Il problema di Roan non è che sia queen o king, ma che sia socializzata come donna. I re, infatti, condividono con le queen AFAB un oscuramento sistemico[2], infiltrandosi nelle crepe di una società che vede nella mascolinità uno standard anonimo, non spettacolare. È il sapore antico, nostrano, di questo Occidente che ben pensa, della cara vecchia misoginia. 

«Ma sta emulando una cultura» dice, infine, il taglialegna che lega il drag, come si è fatto col camp, unicamente a contesti maschili omosessuali. Per quanto non si voglia negare quanto il linguaggio drag sia e sia stato uno strumento di riappropriazione di violenza per la comunità gay, è necessario tematizzare anche quanto esso possa essere un solvente categoriale radicale, una messa alla berlina dell’idea di identità, un gioco da bambin* dove non importa con che corpo si attraversa la società, ma quanto si possa frantumare la società, con i suoi dogmi e prescrizioni, con il proprio corpo. 

Roan troverà il suo Mago di Oz, l’identità, per scoprire non c’è verità essenziale, non c’è casa al di fuori della performance drag. 

I know you wanted me to stay
But I can’t ignore the crazy visions of me in LA
And I heard that there’s a special place
Where boys and girls can all be queens every single day.

La superficie, risemantizzata come “abisso”, diventa uno spazio dove distruggersi e ritrovare sé stessi nelle relazioni che abbiamo scelto, nei Pink Pony Club che ci definiscono, ma solo per gioco.

Note:
[1]: In questo articolo, si è scelto di non adottare i termini “bio queen” o “faux queen” per decentrare il focus sui genitali in rapporto a un’arte queer e problematizzare le disparità di potere sottese ai termini ed evidenziate dalle protagoniste della scena, come Senith, artivista drag queen che calca i palcoscenici da diciotto anni.
[2]: Si segnala, a tal proposito, l’iniziativa italiana e internazionale “Book drag kings”, tesa a evidenziare l’assenza di king nella maggior parte degli ambienti drag. Basti pensare che dei tanti locali drag romani soltanto Latte Fresco ha nel proprio cast fisso dei king, Savage e Agonia Dickson.

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