DALLA NON DISCRIMINAZIONE ALLE POLITICHE ATTIVE PER LA DIVERSITÀ

Quando, ultimamente abbastanza spesso, sentiamo parlare di Diversity Management, è piuttosto complicato capire esattamente l’oggetto del discorso, benché la traduzione letterale dell’espressione (“gestione della diversità”) possa sembrare limpida. Quando, dove e perché nasce il Diversity Management a livello teorico e quali sono le sue applicazioni pratiche in Italia e all’estero? Si tratta di una teoria di management aziendale nata negli Stati Uniti a metà degli anni ‘90 con l’obiettivo di individuare le modalità attraverso cui un’impresa potesse occuparsi della diversità in modo attivo e strategico.

È evidente che il suo contesto promotore abbia influenzato le motivazioni stesse della sua nascita: un paese estremamente diversificato per natura e aziende alle prese con risorse umane appartenenti a gruppi diversi per lingua, origine geografica, religione, livello o sostrato culturale.

Allora negli Usa risultava evidente che le strategie di inclusione della forza lavoro da gruppi a rappresentazione minoritaria – donne e membri delle cosiddette minoranze etniche, la cui assunzione da parte delle imprese era stata regolamentata da un emendamento costituzionale della metà degli anni ’70 – fossero semplicemente  interventi isolati nei settori risorse umane, a cui non seguivano una diffusione e una consapevolezza reale nell’ambiente lavorativo.

L’obiettivo diventa ora quello di andare oltre la mera assunzione di personale diverso, tendendo in primo luogo a una consapevolezza e a una sensibilità nei confronti delle differenze da parte dell’impresa, in secondo luogo a organizzarsi per accoglierle e integrarle e farle diventare parte costitutiva del tessuto identitario dell’impresa stessa. L’ingresso del Diversity Management in un’impresa significa, dunque, attuare un processo manageriale orientato all’accettazione delle differenze e all’impiego di esse come un potenziale valore aggiunto per l’impresa.

Va da sé che esso, nella sua applicazione pratica, non possa esistere al di fuori di un contesto etico e normativo orientato alla non discriminazione e alla valorizzazione della diversità. Negli Stati membri dell’Unione Europea l’armonizzazione legislativa rispetto alla non discriminazione “basata sul sesso, l’origine razziale o etnica, religione o credo, disabilità, genere, età o orientamento sessuale” è arrivata ufficialmente nel 2006 con la modifica dell’articolo 13 del Trattato, portando a una riflessione epocale e alla prima applicazione delle teorie di DM non solo nelle imprese europee, ma anche nelle pubbliche amministrazioni.

Da queste esperienze è maturata un’azione strutturata volta alla definizione di Carte della diversità nei Paesi membri, con l’obiettivo di contribuire concretamente a combattere le discriminazioni sui luoghi di lavoro e a promuovere l’equità e le pari opportunità in ottica di Diversity Management. A oggi i paesi membri che si sono dotati di una carta della diversità sono 21, e sono tutte consultabili sulla piattaforma online della Commissione Europea e, nel caso di quella italiana, sul sito del dipartimento per le pari opportunità.

In Italia, l’applicazione nel concreto della carta sul versante delle pubbliche amministrazioni è passata attraverso l’istituzione dei Comitati unici di garanzia che, obbligatoriamente previsti in ogni pubblica amministrazione del nostro paese sin dal 2011, hanno compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo, con particolare riferimento alle non discriminazioni e alla tutela della diversità.

Il Diversity Management ha dunque compiuto un’importante metamorfosi negli ultimi vent’anni, trasformandosi da una teoria manageriale nata in un contesto altamente competitivo, individualistico e orientato al profitto come quello statunitense, ad uno strumento di policy e adeguamento normativo volto al rispetto dei diritti umani per le imprese e le pubbliche amministrazioni europee.

pubblicato sul numero 38 della Falla – ottobre 2018