CAMBIARE PROSPETTIVA PER DECOLONIZZARE IL NOSTRO SGUARDO
Nel regolamentare il sistema della protezione internazionale, il governo italiano si è recentemente dotato di una lista di «Paesi sicuri» il cui obiettivo implicito è restringere, e dunque respingere o rendere più difficile, l’accoglimento di un numero rilevante di richieste di diritti e di tutele provenienti da persone che fuggono dai propri Paesi di provenienza, se sono nella lista di quelli considerati posti sicuri.
Gli attivisti e le attiviste, nelle crescenti connessioni con i movimenti internazionali, arrivano sempre più a prendere parola contrastando quelle frontiere culturali e giuridiche, figlie di una politica dell’esclusione e dell’omologazione che riduce al silenzio altri discorsi e azioni.
Nel parlare di migrazioni, infatti, non bisogna immaginare solo persone in fuga da guerre o calamità naturali, ma anche da altre situazioni particolarmente difficili; ne sono un esempio quelle persone che, per obbligo o necessità, si ritrovano a dover espatriare in quanto discriminate e perseguitate per motivi legati alla propria sessualità.
Se proviamo a guardare alla situazione dei diritti nel mondo attraverso una prospettiva giuridico-politica, scopriremo che in molti Paesi esistono leggi che consentono alla polizia di incarcerare delle persone in base al modo in cui esprimono il loro genere o la loro sessualità, o che permettono a privati cittadini di farsi giustizia da sé. Ma se il nostro obiettivo vuole essere quello di comprendere i tanti perché alla base dell’odio rivolto verso questa particolare categoria di persone, occorre aggiungere un’altra prospettiva.
A questo scopo una lente storico-antropologica può farci deporre lo sguardo autoassolutorio, mostrandoci come molte delle sanzioni e delle leggi criminalizzanti previste nei codici penali di taluni Paesi risalgano proprio al periodo del colonialismo. Quindi, sebbene oggi molti leader politici e religiosi del cosiddetto Sud del mondo si lancino reciprocamente l’accusa di aver introdotto dall’estero la piaga dell’omosessualità, in realtà le fonti storiche e antropologiche ci dicono chiaramente che semmai è stato il colonialismo a introdurre forme per scoraggiare, sanzionare, reprimere o invisibilizzare modi altri di concepire, vivere o parlare del proprio genere o della propria sessualità.
Ma allora come mai nei discorsi dominanti a livello pubblico-mediatico prevalgono queste posizioni ostili, che a volte assumono forme violente? Probabilmente perché l’omosessualità viene connessa ai comportamenti sessuali espressi dai primi esploratori e allo sviluppo del sistema di sfruttamento, che di certo non è terminato con la fine formale del colonialismo, ma semplicemente è mutato con la globalizzazione e il capitalismo. A partire dal processo di decolonizzazione, molti Stati non occidentali hanno cercato di riacquisire la presunta virilità simbolica perduta durante la sottomissione coloniale, contrastando ogni forma di neo-colonialismo e assimilazione culturale, per ribadire un diritto all’autodeterminazione, che però si è costruito in senso patriarcale ed eteronormativo. In questo scenario, altri orientamenti sessuali o configurazioni di genere sono stati spesso dipinti come una minaccia all’ordine sociale e politico, fungendo bene come capro espiatorio verso cui sfogare il malessere sociale di una crisi generalizzata che connette la frammentazione sociale e la corruzione politica a quella dei corpi. Di conseguenza, con la clandestinità, le pratiche omoerotiche sono divenute ufficialmente proibite e ufficiosamente praticate.
Interrogarci sulla percezione dell’omosessualità, della bisessualità o dei transiti di genere in contesti culturali non occidentali, significa dover guardare queste questioni da angolature particolari, a volte persino inusuali e scomode. Richiede di essere disponibili a mettere da parte ciò che ci risulta familiare, per approdare ad altri modi di concepire, vivere e parlare di intimità, affettività, sessualità e legami sociali. A questo proposito sono molti gli esempi che potrebbero essere citati per mostrare come prima del colonialismo molte società africane, medio-orientali o americane fossero molto più aperte nei confronti di uomini e donne che amavano avere rapporti sessuali con persone dello stesso genere, così come di quelle persone che mescolavano aspetti associati all’universo simbolico maschile e femminile o davano vita ad un terzo genere che andava oltre il binarismo profondamente eurocentrico. In alcuni casi, si considerava queste persone come particolarmente speciali, capaci in determinati casi di svolgere una funzione di dialogo con il mondo sovrannaturale. In questo senso, le fonti e gli approcci antropologici ci mostrano come in altri contesti socio-culturali la stessa idea di identità di genere o di orientamento sessuale possa esser priva di significato, o semplicemente assumerne un altro. L’antropologia ci ricorda come non sia possibile comprendere questioni riguardanti l’intimità, l’affettività, il corpo e la sessualità senza uno studio degli aspetti sociali e culturali che contribuiscono alla loro definizione. Non può esserci una definizione universale di uomo o di donna, di gay o lesbica, di bisex o di trans, ma piuttosto delle versioni specifiche in funzione delle culture, delle epoche e degli ambienti sociali.
Ogni società esistita sulla terra ne ha elaborata una, che spesso ha conosciuto dei cambiamenti nel corso del tempo e attraverso il contatto con altre culture. Non possiamo quindi pensare che le nostre categorie interpretative possano risultare sempre efficaci o pertinenti, ma al contrario, dovremmo iniziare a fare l’esercizio di mettere in discussione la nostra stessa visione del mondo, riconoscendola come una tra le altre e cominciando a vedere le società, le culture e le persone a un livello di pari dignità. Nel confrontarsi con altre testimonianze ed esperienze di vita, dovremmo riconoscere le possibilità date dai mutamenti e dagli incontri, più che fermarci a delle riflessioni su quel che ci rende distanti. In questa avventura che ci porta a guardare altrove non bisogna però cadere nella trappola di essenzializzare e considerare le altre culture come immobili, in quanto fatte da persone in carne ed ossa che a volte restano e altre volte si spostano.
Dietro ogni discorso c’è una scelta, e sottolineare più le differenze che le somiglianze, o viceversa, è una scelta politica. Per muoversi in una direzione opposta converrebbe innanzitutto partire da una decolonizzazione delle nostre menti, del nostro sguardo e della nostra memoria storica: si potrebbe cominciare delle nostre esperienze più dirette, come gli orrori del colonialismo italiano, riconoscendone i lasciti nelle forme di razzismo quotidiano nell’Italia di oggi. Forse in questo nuovo percorso potremmo avere anche la fortuna di imparare qualcosa di nuovo.
Pubblicato sul numero 49 della Falla, novembre 2019
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