Si legge la scritta «my body, my choice» su una delle opere esposte in una piazzetta del borgo medievale di Monte Urano (Fermo) che il 30 e 31 luglio ha ospitato il FəmFest, il primo festival transfemminista nella storia delle Marche. Al festival hanno partecipato diverse ospiti, tra cui il collettivo Clara, il collettivo Liberə Tuttə, e NUDM Transterritoriale Marche; le attiviste Oiza Q. Obasuyi e Marianna the influenza, la scrittrice Valentina Mira; artiste e artisti locali tra cui Silvia Mongardini, Enrica Gjuzi e Lorenzo Cattel che con esposizioni fotografiche e concerti hanno riscritto lo spazio urbano portando in piazza e nelle strade i temi chiave del transfemminismo contemporaneo.
Della regione Marche, negli ultimi mesi, si è parlato tanto come un prototipo di quel cambio di rotta elettorale che ha interessato diverse realtà territoriali storicamente legate al centro-sinistra. Dal 2020 le Marche sono amministrate dalla giunta presieduta da Fratelli d’Italia che ha promosso la regione a «laboratorio politico» esemplare in previsione delle politiche del 25 settembre, elezioni che anche a livello regionale ne hanno confermato la svolta a destra. Del «modello Marche» rilanciato da Meloni in campagna elettorale spaventano, tra le altre cose, le politiche legate all’aborto che si discostano dalle direttive ministeriali limitando l’IVG farmacologica a 7 settimane e impedendo la somministrazione della pillola ru486 nelle cliniche e consultori. A questo si aggiungono dati preoccupanti relativi ai tassi di mobilità e di obiezione di coscienza superiori alla media nazionale. Proprio la provincia di Fermo è tra le province in cui nel 2020 tutte le donne sono dovute andare altrove per avere accesso all’IVG (dati Istat, 2020).
Il contesto cambia la risonanza e la portata simbolica delle pratiche di lotta. Se si considera questa cornice spaziale, irrompere in festa in un comune con meno di ottomila abitanti per mobilitare e stringere centinaia di persone attorno ai temi dei diritti umani, della libera scelta e della lotta transfemminista significa rifiutare il partito preso secondo cui in provincia vita culturale e attivismo politico non possano esistere. Il merito va all’organizzazione del Common Bubble, associazione di volontariato apartitica che prende forma dai dibattiti e dalle discussioni accese ‘sotto le piantine’, ovvero i giardini del centro storico. Per raccontarne la genesi e le sfide che l’attivismo in una piccola realtà di provincia può accogliere, abbiamo intervistato tre delle organizzatrici e fondatrici di Common Bubble. Catherina Zazzini, 29 anni, originaria di Monte Urano, che vive e lavora a Ginevra presso la Commissione Internazionale della Croce Rossa. Anna Maria Mancinelli, 24 anni, di Porto San Giorgio, studentessa di Ingegneria Nucleare a Torino, e Caterina Grandoni, 27 anni, anche lei di Porto San Giorgio e in procinto di laurearsi in Medicina.
Come e perché nasce l’associazione Common Bubble?
Catherina: Siamo nate come associazione a gennaio 2021 e abbiamo preso in gestione la biblioteca, anche grazie al supporto dell’amministrazione comunale. In sette-otto persone abbiamo deciso di creare uno spazio pubblico di condivisione, di lettura e di lavoro che fosse diverso da casa propria. L’obiettivo era quello di portare nelle strade un lavoro di cittadinanza attiva dal basso, i valori di condivisione e inclusività a cui noi ci riferiamo anche come transfemminismo e che per molte di noi rimaneva un dibattito attivo solo sui social, ma anche per offrire stimoli intellettuali in un paese che, a seguito del lockdown, si era trovato improvvisamente ripopolato di persone giovani che in una situazione di precarietà avevano bisogno di trovare sicurezza nella collettività.
Perché il nome Common Bubble? Che cosa ci dice del vostro approccio all’attivismo in rapporto al territorio?
Catherina: Il nome, traducibile come “bolla comune”, nasce dalla volontà di creare una bolla per tuttə e rendere fisico uno spazio virtuale dove rimanere connessə in un territorio in cui è difficilissimo fare rete e mantenere delle connessioni. Tutte noi vogliamo un cambiamento, ma lo vogliamo a partire dalla cittadinanza attiva, dalla partecipazione a spazi fisici e mentali dove prendere decisioni insieme. Perché non partire da un borgo che si sente lontano dalle città? Nelle Marche l’accesso ai borghi e la mobilità tra paesi non sono assicurati dai mezzi di trasporto pubblici, che in molti casi non garantiscono collegamenti essenziali.Se la mobilità non è garantita, l’attivismo deve farsi più capillare e puntare sulla rigenerazione urbana.
Che cosa vi ha spinte poi a organizzare il festival? Quanto è stato importante scegliere di restare a Monte Urano?
Caterina: L’associazione e la biblioteca sono nate a Monte Urano e ci hanno dato lo spazio fisico per riunirci e pensare all’organizzazione di un festival per offrire un punto di riferimento anche in un piccolo paese, soprattutto in una regione come le Marche dove la mancanza di spazi in cui riunirsi e dibattere è uno dei problemi maggiori. Volevamo spostare il discorso sui diritti dai centri alle periferie e incoraggiare, seppur nelle difficoltà, la mobilità anche nei centri più piccoli. L’appoggio dell’amministrazione comunale è stato fondamentale per restare nel luogo che ha fatto da sfondo alle discussioni con persone coetanee e compaesane che in alcuni casi erano totalmente estranee al transfemminismo e ne avevano una percezione distorta perché lontane dai centri maggiori in cui è più facile avere accesso a certi dibattiti o si è influenzate dalla visione più mainstream del transfemminismo.
Catherina: Siamo partite dall’idea di organizzare una festa come momento di condivisione con la comunità locale, non di provocazione o chiusura. Non volevamo semplicemente organizzare un festival femminista, ma raccontare quello che è il femminismo oggi, portare la prospettiva transfemminista che è quella che ci rappresenta di più per l’inclusione di tuttə. Volevamo due giornate di gioia e raccoglimento. Non so se ci siamo riuscite, ma penso che quelle mura in quei giorni siano diventate un po’ fortezza in cui poter essere libere.
Come ha reagito la comunità locale? Avete incontrato delle resistenze?
Catherina: Non ci aspettavamo tanta partecipazione, all’inizio pensavamo che se fossero arrivate anche solo venti persone saremmo state contente. Poi ci siamo trovate a non sapere più come fare spazio a tuttə. Il centro si è riempito di quattrocento persone nel giro di due giornate. Guardando però alle percentuali, ci siamo accorte che in maggioranza si trattava di giovani che erano venuti da fuori. La parte della comunità legata alla chiesa è quella che ha mostrato più resistenze, anche per la presenza di laboratori che avrebbero coinvolto bambini e bambine, ma è stato importante e ci ha fatto piacere l’intervento inaspettato del vescovo della zona che ha invitato la comunità ad aprirsi al dialogo.
Come cambia l’attivismo in provincia? Quali sono le sfide da affrontare?
Anna: È molto difficile accettare di non poter urlare in provincia. Spesso ci si trova di fronte a un muro che ti costringe a adottare un approccio più pacato ma che ti permette comunque di mettere la pulce nell’orecchio. Bisogna prima capire qual è l’obiettivo e il contesto in cui muoversi. L’approccio che abbiamo seguito a partire dalla scelta dei temi e del modo di trattarli voleva essere di apertura, divulgazione e informazione per posizionarci alla pari di tuttə, non come persone che ne sanno di più e vogliono insegnare qualcosa. Anche noi stiamo imparando e abbiamo imparato tantissimo dal FəmFest.
Catherina: Tanta gente ci ha detto che queste tematiche non toccano la realtà del paese, che sono iniziative che puoi fare a Roma e a Milano ma non a Monte Urano. Quello che volevamo è far capire che parlare dei diritti delle donne, delle persone queer, delle persone trans, delle persone razzializzate ci riguarda tuttə. Nei borghi sembra tutto più lontano, la diversità sembra non esserci perché non esce in piazza. E invece c’è ed è ovunque. Il fatto che la vita delle minoranze sia volutamente marginalizzata e invisbilizzata non vuol dire che non esista. Perché alla fine quello che vogliamo è che tuttə si sentano liberə e sicurə nella nostra comunità.
Monte Urano può essere una città transfemminista?
Catherina:Il nostro presupposto e approccio metodologico si fonda sulla pratica femminista del prendersi cura le une delle altre. Da qui, le regole della casa che abbiamo appeso alle porte del paese per tutelarci e tutelare le persone che sarebbero venute al festival. Tra queste, l’importanza del consenso, del supporto reciproco, la possibilità di chiedere aiuto, il rispetto dei pronomi, dell’identità di genere e della sessualità di ognunə, zero tolleranza per discorsi e comportamenti a sfondo machista, sessista, abilista, razzista, grassofobico, omofobico e transfobico.
Anna: Abbiamo voluto dare nuovi nomi ai luoghi e alle strade scegliendo quelli delle attiviste che hanno rappresentato cambiamento per creare una città che si prendesse cura delle persone al suo interno. Nella nostra città ideale basata sulla cura, i nomi delle strade sono di gente che ne ha data e ha messo in discussione il sistema.
Quali sono i vostri progetti futuri?
Abbiamo all’attivo un progetto podcast orientato sui temi della quotidianità e, nello specifico, delle emozioni, che ovviamente si rielaborano in quell’ottica di cura che dicevamo prima. Per adesso abbiamo parlato di imprenditoria femminile, di rigenerazione urbana, di cinema e di tanto altro. Il 30 aprile si terrà l’Aperisync, un evento per valorizzare il patrimonio musicale e artistico locale con cui raccoglieremo fondi per l’associazione. Sicuramente il FəmFest 2023 è già in calendario.Per ulteriori contatti con Common Bubble, il canale Telegram .https://t.me/+_HmXQ6ahX-kxYzlk
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