La Rivoluzione d’ottobre è stata uno degli eventi spartiacque della storia europea del Novecento. Inattesa fino all’ultimo e fin da subito presentatasi come atto di rivoluzione globale, fu definita dal giornalista John Reed come «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Meno noto, però, è che la Russia post-rivoluzionaria fu definita dallo psichiatra marxista Wilhelm Reich come il laboratorio di una nuova e libera morale sessuale.
Tutto ebbe inizio con i primi passi dell’Impero Russo: lo zar Pietro il Grande introdusse nel codice giuridico il crimine militare di omosessualità nel 1716; nel 1835 Nicola I lo estenderà a tutti i cittadini maschi: la sodomia tra adulti consenzienti era punibile con l’esilio in Siberia. Né l’opposizione liberale al nuovo Codice penale zarista del 1903, né il governo provvisorio borghese del febbraio 1917 portarono a cambiamenti di fatto, e solo con la Rivoluzione d’ottobre arriveranno dei risultati concreti.
Il partito rivoluzionario, quello bolscevico, non aveva le idee chiare in materia e le prospettive sulle tematiche sessuali erano molteplici e polimorfe. Lenin stesso riteneva che il libero amore, come in generale le questioni sessuali, dovesse aspettare che la rivoluzione proletaria gettasse le basi di un nuovo ordine materiale. Con tutta probabilità, un gruppo militante per i diritti omosessuali sarebbe risultato divisivo, la priorità era la rivoluzione. Scriveva il leader dei bolscevichi: «Mi sembra che queste fiorenti teorie sessuali […] nascano dal bisogno personale di giustificare l’anormalità o l’ipertrofia nella vita sessuale davanti alla morale borghese, e di implorare la sua pazienza. Questo rispetto mascherato della moralità borghese mi sembra tanto ripugnante quanto il frugare nelle questioni sessuali. Per quanto tale comportamento possa essere selvaggio e rivoluzionario, è ancora molto borghese. È, principalmente, un passatempo degli intellettuali e delle sezioni più vicine a loro. Non c’è posto per esso nel partito, nel proletariato combattivo che ha coscienza di classe».
Effettivamente, i principali promotori per la decriminalizzazione dell’omosessualità erano stati alcuni giuristi impegnati a fare della Russia un moderno Stato liberale rifacendosi agli astratti concetti di privacy e autonomia personale: un movimento di liberazione omosessuale era del tutto assente. Nonostante queste perplessità teoriche, c’era un generale accordo sul da farsi: il divieto di sodomia andava eliminato.
Poche settimane dopo la rivoluzione, il Commissariato di Giustizia, diretto da Isaac Steinberg, redasse uno statuto penale dove i rapporti sessuali tra adulti (definiti come maggiori di 16 anni) erano considerati legali. Anche la successiva bozza nel 1918 del Codice penale depenalizzava i rapporti omosessuali. La definitiva decriminalizzazione dell’omosessualità avvenne con il primo vero Codice penale sovietico, adottato solamente il 1° giugno 1922 a causa della guerra. Venne abbandonata l’età minima di 16 anni, sostituendola con un concetto generico di «maturità sessuale» che, di fatto, imponeva di valutare caso per caso, sulla base del parere medico. Quanto detto venne riaffermato nel 1926, quando il Codice penale fu aggiornato – l’ultimo prima della repressione staliniana iniziata nel 1933. Mentre in Germania si rischiavano cinque anni di prigione e in Inghilterra persino l’ergastolo per «vizi innaturali», non solo la Russia rivoluzionaria legalizzava i rapporti omosessuali ma ne innovava la stessa terminologia giuridica: abbandonato il vocabolario di matrice religiosa-teologica di epoca zarista, si ha la prima comparsa di un lessico medico avanguardistico rispetto alla scienza dell’epoca.
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