Il senso dell’8 marzo nell’intervista a Susanna Zaccaria
Susanna Zaccaria, avvocata, si occupa di diritto di famiglia, in particolare di vittime di violenza. Collabora con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna dal 1998 e ne è l’attuale presidente. È stata Assessora alle Pari opportunità e differenze di genere del Comune di Bologna dal 2016 al 2021, con delega ai diritti LGBT.
Susanna Zaccaria, il tuo è un ritorno alla presidenza della Casa delle donne di Bologna e arriva dopo cinque anni di esperienza nell’amministrazione comunale. Cosa ti ha convinta ad accettare nuovamente questa carica?
La premessa è che l’interruzione della presidenza, nel 2016, era stata molto brusca e io non mi aspettavo un coinvolgimento e un incarico politico. Ero presidente solo da un anno e ho dovuto decidere in fretta se volevo fare quella esperienza politica, con la consapevolezza che sarebbe stata limitata nel tempo. Alla fine del mandato ho capito che non solo avevo voglia di tornare a esercitare la professione, ma anche di contribuire in Casa delle Donne. Dopo l’esperienza in giunta mi sento anche di dire che è stato un ritorno facile, al di là dell’accoglienza caldissima, davvero calorosissima che ho avuto dalle socie, dalle componenti del Cda, dall’ex presidente. La presidenza era rimasta lì, in sospeso, e vista l’importanza che l’associazione riveste in città non hanno dovuto insistere tanto, mi ha fatto piacere che me l’abbiano chiesto.
Che bilancio fai del mandato appena trascorso? Quali invece i risultati che secondo te non si sono raggiunti?
Sicuramente posso farne un bilancio positivo in termini di esperienze, sia a livello personale sia professionale, perché l’incarico ti costringe a metterti molto in gioco, per esempio mettendo alla prova la capacità di mantenere un ruolo pubblico e di rappresentare un’istituzione importante, certamente una cosa non immediata.
Lo definirei comunque un percorso con dei distinguo. Sono stata infatti chiamata a ricoprire delle deleghe molto attinenti alla mia vita professionale per cui era impossibile dire di no, anche perché si trattava di un assessorato che prima non esisteva, costituito in quel mandato. Un’offerta lusinghiera ma anche affine a quello che avevo fatto fino a quel momento: occuparmi di diritti. Successivamente però l’esperienza politica si è evoluta, perché nell’ultimo periodo il sindaco mi ha dato diversi incarichi, con cui ho potuto spaziare e conoscere la città sotto tanti aspetti. Dopodiché mi ha affidato la delega alla scuola una settimana prima della chiusura per la pandemia, rendendo il percorso più impegnativo e importante, perché ero molto cosciente della responsabilità derivante dall’intervenire in un momento così difficile, in cui nessuno sapeva quasi niente del virus. Per fortuna il Comune di Bologna ha dei tecnici fantastici e il settore scuola era molto ben strutturato, altrimenti sarei dovuta scappare. Approcciarmi a una delega che non era nel mio ambito è stato molto diverso rispetto ai primi anni di mandato e farlo in un momento così difficile, con delle responsabilità grandissime, mi ha messo molto alla prova. Ma anche di quell’ultima fase, con il senno di poi, ho fatto tesoro e posso tracciarne un bilancio positivo.
Durante la pandemia le donne vittime di violenza erano costrette in casa, a contatto con chi agiva abusi su di loro. Gli ultimi dati disponibili ci raccontano di un incremento delle chiamate al numero antiviolenza 1522. Come attivista e amministratrice hai avuto modo di osservare le politiche e le pratiche di contrasto alla violenza sulle donne e di genere da due punti di vista diversi e complementari, soprattutto durante la pandemia. Cos’è successo in questi anni?
A marzo 2020 i centri antiviolenza hanno assistito a qualcosa mai successo prima: il silenzio dei telefoni. Un silenzio davvero inquietante, come riportato dalle operatrici della Casa delle donne, che mi provoca ancora oggi la stessa impressione suscitata dalle piazza vuote, perché le donne si sono trovate costrette in casa, senza quel minimo di tempo e autonomia per fare una telefonata nel tragitto casa/lavoro o mentre facevano la spesa. Dopo un iniziale smarrimento c’è stato un periodo di riorganizzazione dei centri – si sono attivati nuovi strumenti, come una linea di messaggistica – e anche delle donne, per trovare nuovi spazi di autonomia.
Da quel momento in poi sono aumentate le richieste di aiuto, perché se da un lato non possiamo dire con certezza che siano aumentati i casi – non dobbiamo mai dimenticare che non sappiamo quanto sia il sommerso – resta il fatto che la convivenza forzata ha esasperato situazioni che forse potevano anche non sfociare in violenza, perciò è una di quelle poche volte in cui sento di dire che sono aumentati i casi. I centri hanno messo in campo tutti gli strumenti tecnologici per attivare i contatti e la prontezza e la disponibilità nel rispondere al telefono delle operatrici, che gestiscono circa settecento/ottocento nuove donne ogni anno. Numeri esorbitanti e sproporzionati rispetto al personale, anche per un’associazione non piccola come la Casa delle donne, che vengono gestiti grazie al lavoro enorme delle operatrici che si occupano dell’accoglienza e dell’ospitalità, e delle avvocate, delle psicologhe e delle volontarie di servizio civile.
È chiaro che si può affrontare un’emergenza di questo tipo solo garantendo la qualità del servizio grazie alla formazione continua e al buon lavoro in rete con gli altri attori del territorio, perché sappiamo che a un fenomeno così complesso bisogna dare delle risposte articolate. Certamente abbiamo sempre avuto un territorio in cui le donne si fidano e un numero di denunce alto c’è dove le donne si fidano, perché se manca la fiducia non escono allo scoperto.
Da amministratrice la priorità è stata quella di cercare di capire come sostenere le associazioni che si stavano riorganizzando, distribuendo delle risorse che con la pandemia sono arrivate in misura maggiore tramite la regione, che le ha poi redistribuite sui territori. Nonostante le ristrettezze economiche c’è stata la coscienza da parte dello stato della difficoltà che stavano vivendo le donne.
Nonostante le prospettive di crescita e riapertura, le diseguaglianze aumentano e a farne le spese, come sappiamo, sono le donne e i soggetti marginalizzati. Quali sono le sfide per il futuro e quali strumenti si possono mettere in campo per affrontare queste sfide e il contrasto alle diseguaglianze, anche per una realtà storica e importante come la Casa delle donne?
Come hai detto benissimo tu, sappiamo che quando parliamo di disuguaglianze quelle che pagano di più sono le donne: hanno pagato in termini di perdita del lavoro, come ci dicono i numeri chiarissimi e non interpretabili. Ripartenza e recupero passano dal contrasto a queste disuguaglianze, e non penso che esista chissà quale ricetta magica o che ci dovremmo inventare qualcosa di nuovo rispetto a ciò che viene già messo in campo.
Casa delle donne da anni cerca di sostenere le donne nel percorso di uscita dalla violenza curando ogni ambito e tenendo ben presente che il recupero dell’autonomia che la violenza ha tolto passa anche dall’aspetto abitativo e da quello lavorativo. Questo assunto è alla base del metodo di un centro antiviolenza che funziona bene, che accoglie e non ha una prassi definita ma valuta le necessità e i bisogni di quella persona, che sono diversi da donna a donna. Il nostro lavoro passa certamente attraverso una politica attiva fatta di campagne sull’occupazione, sul gender pay gap e su tutti i temi che riguardano la condizione femminile, ma questo si concretizza poi giorno dopo giorno nel supporto alle donne. Tenere molto alta la qualità dei servizi, potenziare i nostri interventi, curare la rete di partner e cercare di confrontarci con tutti i soggetti che possono effettivamente fare da sponda e sostegno alle donne che accedono ai nostri servizi, dagli alloggi allo sportello per il lavoro. Continuare ad avere una presenza sul territorio efficace, saper rispondere sempre, sia quando chiamano le donne sia quando le segnalazioni non arrivano dalle vittime di violenza. Riceviamo infatti circa duecento chiamate di questo tipo, dimostrando quanto siamo un punto di riferimento. Per dare delle risposte devi conoscere tutti i servizi attivi sul territorio, collaborando il più possibile anche in altri ambiti, un approccio non scontato. Abbiamo esplorato già i temi delle politiche occupazionali e di conciliazione in questi 32 anni, ma sicuramente la ripresa deve passare ancora di più dalla riapertura della discussione su queste politiche.
Dalle tue parole esce il ruolo molto forte delle reti in città per rendere più efficace il lavoro della Casa delle Donne. Quali sono le relazioni tra Casa delle Donne e il movimento LGBTIQAP+, in un momento storico in cui le posizioni dei movimenti femministi divergono?
Mi vengono in mente diversi progetti di collaborazione in questi anni, come per esempio la Linea telefonica di Lesbiche Bologna per il contrasto alla violenza nelle coppie lesbiche, la cui formazione è stata portata avanti da Casa delle Donne. Sono stati messi a disposizione dei saperi sulla gestione dell’emergenza e ne sono stati forniti altri su temi LGBT+, in un’ottica di scambio di conoscenze che accresce entrambe le parti, per rispondere ai bisogni che bussano ogni giorno alle nostre porte.
Un’altra relazione forte è quella con il MIT, che ha portato certamente a collaborare su diversi progetti e che si basa sulla condivisione non solo della stessa città ma dei medesimi obiettivi: la tutela dei diritti. Nessuna delle associazioni con cui collaboriamo escluderebbe mai una persona che viene a chiedere aiuto, quindi questo scambio di saperi è un arricchimento che va oltre la condivisione di un servizio.
Non mi dimenticherò mai di quella volta in cui Vincenzo Branà, allora presidente del Cassero, mi fece conoscere un ragazzo straniero vittima di un attacco omofobico, il cui caso avevo portato in Consiglio comunale e dove la destra minimizzò l’accaduto. In quella situazione ho ringraziato gli dei di tutte le religioni di aver avuto nella mia vita precedente esperienze di accoglienza nel momento in cui rappresentavo le istituzioni. Una conoscenza che dovremmo avere tutte, in qualsiasi ruolo. E la formazione continua, non solo nei ruoli chiave ma a tutti i livelli, è la sfida che affrontiamo ogni giorno ormai da anni.
Per concludere, ti chiedo un pro e un contro del ruolo di amministratrice e di attivista nel contrastare la violenza di genere.
Non è semplice rispondere… Il pro da attivista è ritrovare la sensazione di potermi sporcare le mani, prendere una situazione e portarla fino alla fine. In altri termini, l’operatività. E qui c’è il contro nell’amministrazione, che è chiaramente l’impossibilità di intervenire in tempi rapidi nella realizzazione dei progetti di contrasto che servono alla città. Perché questa è la differenza che ho sentito, anche in un comune virtuoso come quello di Bologna, quindi non voglio immaginare in altre realtà: la differenza tra i tempi dell’amministrazione e quelli dell’attivismo, necessariamente diversi.
Il pro del lavorare per l’amministrazione è invece l’onore di tutelare i diritti per un ente come il Comune di Bologna, perché la tua voce si amplifica e puoi arrivare dove non arrivi come attivista. Per esempio spingere l’iter della legge regionale contro l’omolesbobitransfobia, una delle soddisfazioni più grandi che mi porterò, come anche assistere al tavolo con le associazioni LGBTI+ che hanno sottoscritto il patto di collaborazione con l’amministrazione, dove si sono riusciti a sciogliere dei nodi senza aspettare che qualcuno dovesse per forza far approvare una legge. Il contro da attivista… È brutto se dico che non ne trovo? I sacrifici da attivista valgono sempre la pena, perché i poteri sono limitati, ma senti di fare tutto quello che puoi.
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