ORGOGLIO E VITTIMISMO
di Nicola Riva
A chi fa attivismo LGBT+ oggi capita spesso di provare un senso di frustrazione di fronte alla difficoltà a coinvolgere nelle proprie attività una larga parte delle persone omosessuali, magari apertamente tali e orgogliose di esserlo, ma piuttosto restie a impegnarsi in ciò che viene etichettato come “politica” LGBT+ e guardato con un certo fastidio. Agli occhi dell’attivista, la maggior parte degli/delle omosessuali pare interessata solamente alla socialità LGBT+ ma poco disposta a mettersi in gioco per una causa che la riguarda. A dirla tutta, chi fa attivismo ha spesso l’impressione di essere guardata/o dall’esterno come una/o “sfigata/o” (passatemi questa brutta parola eteronormativa, che non ha equivalenti) un po’ fanatica/o e settaria/o. Sarebbe troppo facile attribuire la responsabilità di ciò all’indolenza e alla mancanza di consapevolezza della maggior parte degli/delle omosessuali. Chiediamoci, piuttosto, cosa oggi l’associazionismo LGBT+ abbia da offrire di attraente a chi vi si avvicina dall’esterno.
La mia risposta è severa: apparentemente non molto. L’associazionismo LGBT+ negli ultimi tempi ha puntato quasi tutto in due direzioni: il contrasto all’omofobia – anche attraverso la fornitura di servizi e di assistenza alle persone LGBT+ – e la rivendicazione di (pari) diritti. Si tratta – sia ben chiaro – di due cause molto importanti. Tuttavia per dedicarsi a quelle attività ci si è dimenticati di quell’ulteriore dimensione, che era centrale per il movimento LGBT+ degli anni Sessanta e Settanta, che consiste nell’elaborazione di una cultura critica e di forme di vita alternative in essa radicate, da contrapporre a quelle tradizionali. Solo una cultura di quel tipo può fare da collante per una comunità, risultare attraente per chi ancora non ne fa parte. Chi è attivamente impegnata/o nell’associazionismo LGBT+ è spesso in grado di trovare motivi d’orgoglio in ciò che fa e nei risultati che, spesso a fatica, riesce a conseguire. Ma ciò non costituisce un’attrattiva per chi ancora non ne ha fatto esperienza.
L’appiattimento dell’agenda dell’associazionismo LGBT+ sulla condanna dell’omofobia – che ha preso il posto della ben più radicale denuncia dell’eteronormatività e della repressione sessuale che investe tutte/i, omosessuali e non – e sulla rivendicazioni di diritti veicola all’esterno un’immagine ben precisa della persona omosessuale, che viene identificata con la vittima di una violenza, che si manifesta sul piano istituzionale nell’assenza di alcuni diritti. Una tale immagine, a prescindere dal suo essere o meno realistica – in parte lo è, ma è un’immagine incompleta –, non è certo un’immagine nella quale ci si rispecchia volentieri. Se nella percezione comune l’omosessualità viene associata a una condizione di esclusione, non è difficile capire perché molte persone facciano fatica a individuare qualcosa di positivo nell’essere omosessuale e provino un certo disagio nei confronti di chi, a loro giudizio, continua a proporre quell’immagine. Per dirla semplicemente: è difficile essere orgogliose/i di non avere dei diritti.
Il sentimento di appartenenza a una comunità e il desiderio di contribuire attivamente alla sua esistenza dipendono dalla possibilità di identificare quella comunità con qualcosa di positivo, con una cultura dotata di valore: non una cultura settaria, nella quale solo le persone omosessuali possano riconoscersi, ma una cultura che si presenti come alternativa a quella tradizionale. La “liberazione” che immaginavano i/le pionieri/e della nostra comunità non era la liberazione delle sole persone omosessuali. Era la liberazione di tutte le persone da una morale sessuofoba e repressiva. Ai loro occhi le vittime non erano solo le persone omosessuali. Semmai, in virtù della loro condizione, le persone omosessuali erano meglio collocate per percepire il carattere oppressivo della morale dominante ed emanciparsi da essa: la condizione dell’omosessuale era una condizione di privilegio. Non è questa un’immagine più positiva dell’omosessuale, con cui è più facile identificarsi? Non è la prospettiva che essa dischiude, una prospettiva ben più attraente per cui attivarsi? Perché limitarsi a invocare dei diritti se possiamo sognare di trasformare il mondo?
pubblicato sul numero 4 della Falla – aprile 2015
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