Per «le signore, i signori, e chiunque sia nel mezzo» che amano i testi ben scritti, la recitazione di qualità, la semplicità e l’efficacia della messa in scena, le riscritture, le reinterpretazioni, la pluralità delle prospettive, le testimonianze di vita vera, la leggerezza, l’ironia, la riflessione: ecco per chi è questo spettacolo, portatore di grandi soddisfazioni!

Con la sua pièce Evə, Jo Clifford, britannica, donna trans, attrice e autrice di un centinaio di opere teatrali (ma anche di libretti d’opera), offre una rilettura e una profonda critica del mito cristiano della genesi. Nell’ottima traduzione di Stefano Casi e l’asciutta regia di Andrea Adriatico, sono presentate le storture del racconto biblico, contraddittorio e incoerente, in cui Dio fa decisamente una magra figura.

Le défaillances del Creatore sono smascherate senza mezzi termini ma con un piglio ironico che, mentre dissacra. rivela anche una profonda conoscenza della Bibbia. Viene narrata (tra le altre) la storia di Lilith, molto meno nota di Eva: prima donna creata al fianco – e non dal fianco! – di Adamo, che fuggì dal Paradiso pur di non dover più passare il tempo con l’uomo, e fu poi ostentatamente dimenticata dalla tradizione cristiana e cattolica.

Smontata pezzo a pezzo, la Genesi si rivela un’enorme fandonia, ma l’operazione non è scevra di rispetto: tutta l’analisi si fonda sulle parole dell’Antico Testamento, ed è sì posizionata, ma non di parte. Resta oggettiva, e impeccabile. C’è da chiedersi se non valga la pena di proporla a catechismo, o durante un’omelia in chiesa, e vedere di nascosto l’effetto che fa.

Sul palco vuoto, sei persone raccontano la propria storia, alternandosi e intrecciando il flusso della loro voce. Eva Robin’s, Patrizia Bernardi e Rose Freeman (che recita in inglese, efficacemente sovratitolata) si concentrano principalmente sul testo sacro, mentre Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera rendono conto di esperienze di vita che ruotano intorno all’identità di genere dei loro personaggi (o di loro stessə, non si può e certamente non è necessario dire).

Tutti i racconti sono uniti dal fil rouge del genere: assegnato alla nascita, normato dalla religione e dal mondo esterno, accettato o inappropriato, nuovamente scelto, in alcuni casi cambiato, sempre dibattuto, gabbia da cui fuggire ma anche mezzo di affermazione di sé.

La pièce dura un’ora, che vola, nonostante sul palco succeda ben poco: lə attorə sono incapsulate in un cilindro di plastica, che lə ingabbia ma ne amplifica la voce in modo anche un po’ distorto. Qualche volta si spostano nello spazio, ma per la maggior parte del tempo parlano soltanto. Il loro corpo è quasi bloccato, ma i loro visi sono liberi, un tutt’uno con quello che dicono, e con chi ascolta.

Parlano con calma, direttamente al pubblico, con chiarezza e intensità. Spiegano, interpretano, coinvolgono, e alla fine dello spettacolo ci si accorge che l’ordine naturale delle cose ha invertito il suo corso, le prospettive si rimescolano e tornano in un nuovo ordine, più grande, divino, in cui ogni persona può cercarsi e trovarsi, in barba alla barba di Dio.

Ritratto di Jo Clifford da lgbthistoryuk.org

Foto dello spettacolo da ciranopost.com