Nell’ultimo decennio gli studi urbani sono stati attraversati, seppur in modo non strutturato, da analisi e ricerche orientate da una forte prospettiva di genere. Complice anche una crescente sensibilizzazione su questi temi portata avanti dall’attivismo civico e militante, essi hanno interrogato il ruolo del genere nella trasformazione dello spazio fisico e simbolico urbano, nella creazione di uno spazio pubblico capace di rispecchiare la complessità del tessuto sociale che ne attraversa le molteplici dimensioni. Una prospettiva femminista critica in questo ambito riflette sulla costruzione sociale del genere come vettore di dinamiche marginalizzanti ed escludenti nel territorio urbano e dai processi decisionali e politici che ne costruiscono le pratiche d’uso. Storicamente le città sono state il centro di relazioni di potere diseguali, strutture socio politiche oppressive e pratiche discriminatorie che hanno contribuito a modellare l’esperienza urbana e la rappresentazione della cittadinanza, intesa non in una accezione giuridico-legale ma come capacità di determinare il proprio agire urbano.
Nonostante una crescente consapevolezza sul tema, molte aree cittadine sembrano rispecchiare questa sproporzione: le donne, le minoranze sessuali e di genere fanno ancora fatica a riconoscersi dentro le strutture moderne di città, costruite sulla presunzione che le sue infrastrutture fisiche e immateriali siano neutre e universali. Il fenomeno delle “città a misura di uomo” si rivela applicabile anche alla realtà delle aree metropolitane italiane: persino in città come Bologna, spesso considerata progressista, manca una visione sistemica della progettazione fondata su dati e studi analizzati alla luce delle disuguaglianze di genere che si riflettono nell’esperienza individuale e collettiva dello spazio urbano. È importante, tuttavia, sottolineare come siano in atto sforzi da parte dell’amministrazione locale per affrontare queste tematiche: Impegni sulla parità di genere nelle politiche pubbliche, interventi per contrastare discriminazioni, percorsi formativi volti a sensibilizzare e fornire strumenti di progettazione attenti al genere stanno cominciando a prendere forma e fanno auspicare una volontà di intervenire sulle disuguaglianze sociali e spaziali legate alla città.
Manca però la visione strategica e complessiva di un approccio femminista alle numerose dimensioni legate alle pratiche di cittadinanza urbana delle donne e delle minoranze di genere, spesso costrette dentro stereotipi generati dalla dicotomia “lavoro produttivo vs lavoro di cura” come uniche attività rilevanti, o come vittime impotenti di una violenza nello spazio pubblico a cui si finisce per rispondere con misure sicuritarie. La crescente attenzione dedicata alle trasformazioni delle città sui temi della nuova mobilità, dei processi produttivi, dell’ambiente e benessere urbano, del welfare culturale, della questione abitativa e dell’accesso alla salute resta impermeabile alla prospettiva analitica di genere, relegandone lo sguardo a sfere ridotte e circostanziate della vita urbana. Ne risulta quindi una frammentazione di politiche che pur mosse da un nobile intento, propongono soluzioni parzialmente efficaci e che restano spesso di nicchia invece che configurarsi come interventi trasversali volti a rafforzare una cultura del gender mainstreaming.
L’esclusione delle donne e delle minoranze di genere non si sostanzia solo nelle difficoltà di accesso a luoghi e opportunità – pensiamo alle criticità legate alla fruizione nelle ore notturne di parchi e giardini per ragioni di svago o sportive perché percepiti insicuri oppure alla frammentazione e precarietà di servizi sociali e sanitari dedicati alle donne e alle minoranze di genere o ancora alla scarsità di spazi di socialità che non siano legati al consumo o come spazi di attesa mentre si svolgono attività di cura (parco giochi, palestre, cortili delle scuole etc.) – o nella complessità di affrontare azioni quotidiane – come le pratiche di mobilità sostenibile per cui le donne compiono il cosiddetto trip-chain, rendendo più articolato e complesso l’uso del trasporto pubblico, o l’assenza di servizi igienici pubblici adeguati e accoglienti – ma si esprime anche attraverso l’esclusione di questa fascia di popolazione dalle scelte progettuali e politiche che danno forma ad una agenda politica della città. Ripensare lo spazio urbano in una prospettiva femminista significa quindi non solo ripensare la progettazione degli spazi fisici ma aprire a letture nuove ed inedite della città per strutturare spazi di agibilità, di parola e di autodeterminazione per chi resta sistematicamente ai margini delle pratiche del quotidiano.
Non si tratta (solo) di allargare i confini dei processi decisionali ma di fare spazio, abilitare al potere della scelta una platea eterogenea di soggettività finora rimaste sullo sfondo, in secondo piano, per immaginare sviluppi futuri dell’ambiente urbano e delle sue pratiche di uso. Significa decostruire, per ricostruire in modo alternativo, il disegno di sviluppo della città e delle sue politiche in cui il diritto alla città lascia il passo al desiderio alla città, intesa come la capacità di agire lo spazio e dargli la forma dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni, in modo consapevole e pieno.
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