Che siano pranzi o cene in famiglia, serate con lə amichə, feste di compleanno, di laurea o mense scolastiche, la tavola è il luogo di socializzazione per eccellenza. Da sempre per gli esseri umani mangiare insieme risponde all’esigenza di nutrirsi ma anche e soprattutto a quella di stabilire relazioni. Che si tratti di esigenze fisiche (allergie, intolleranze, patologie), motivi culturali e religiosi (diete halal, kosher, sattvica, ecc.), scelte etiche (vegetarianesimo, veganesimo, ecc.) o disgusto per alcuni alimenti, per le persone non onnivore spesso è complicato accedere alla socialità alimentare e la tavola rappresenta una fonte di stress e discriminazioni. È possibile, infatti, che non ci sia neanche un’opzione adeguata e talvolta, se c’è, si tratti della solita alternativa inserita con il mero scopo di non far restare qualcunə completamente a digiuno. Pasta al sugo, verdure grigliate, insalate scondite e riso in bianco, per quanto buonissimi, sono un’alternativa poco inclusiva e la mancanza di scelta (o la scelta molto limitata) è discriminatoria in contesti in cui nutrirsi è un aspetto secondario rispetto alla socialità. In alcuni casi, poi, la scarsa varietà può anche portare a problemi nutrizionali, come nel caso di mense scolastiche che come opzione vegana offrono tutti i giorni solo pasta al pomodoro o riso in bianco.
Alla mera possibilità di mangiare qualcosa, o qualcosa di gustoso, si aggiungono i giudizi altrui e le microaggressioni. Se il menù è limitato a una sola dieta, o la persona che ha cucinato l’ha fatto secondo i suoi gusti personali, chi ha un’esigenza alimentare particolare si vedrà costrettə a fare coming out per chiedere un’alternativa (spesso scusandosi e giustificandosi) ed esporsi quindi a commenti e domande alle quali non si ha sempre voglia di rispondere. Chi ha allergie e intolleranze si trova a dover giustificare la propria condizione medica e a fare informazione su quello che può e non può mangiare, su cosa succede se lo fa, su quando e come l’ha scoperto, per poi spesso sentirsi compatitə perché lə vengono preclusi cibi molto buoni o di grande valore sociale (si pensi alla pizza per le persone celiache italiane).
In più, le esigenze alimentari spesso sono considerate secondo una scala di valori, e se le allergie sono ritenute più accettabili (perché c’è in gioco la vita di una persona, ma già sulle intolleranze capita di percepire scetticismo), le esigenze frutto di una scelta risultano meno comprensibili e considerate capricci. Chi non mangia alcuni alimenti per scelta religiosa o etica spesso si vedrà costrettə a dover giustificare (e difendere) una parte della propria identità davanti a persone che, nella maggior parte dei casi, non si pongono in reale posizione di ascolto. Dopo centinaia di volte, viene a mancare la voglia di intavolare l’ennesima discussione sul perché mangiare o meno la carne, assicurare di assumere la giusta dose di ferro e di vitamine – domande sulla salute che nessunə pensa di porre a una persona onnivora – e a volte perdere la pazienza nel cercare di rispondere all’affermazione «Ma anche le piante soffrono!». Quando poi si risponde con rabbia, si è subito tacciatə di estremismo, di voler imporre la propria scelta sulle altre persone, di sentirsi superiori, di essere viziatə e ipocritə, perché se dovessimo scegliere se morire di fame o mangiare carne sicuramente sceglieremmo la seconda.
Ci sono persone, infine, che non mangiano alcuni alimenti il cui odore, sapore, consistenza provocano in loro un forte senso di disgusto: una delle più diffuse è la turofobia, che riguarda i formaggi. Benché considerate capricci, spesso queste esigenze derivano invece da traumi. Va da sé che chiedere l’origine del trauma o porre nelle vicinanze uno di questi piatti è una forma di violenza. Certamente, come in tutte le minoranze, esistono sia discriminazioni interne (è possibile che una persona celiaca discrimini una vegetariana o una persona vegana discrimini una persona musulmana), sia discriminazioni interiorizzate, per cui si percepisce come giusto mangiare la pasta in bianco perché in fondo si tratta di una scelta personale e non si vuole dare fastidio. In un mondo che insegna fin da piccolə il valore positivo del mangiare tutto e che fa sentire in colpa chi non mangia qualcosa perché sta mancando di rispetto e gratitudine verso chi cucina, rivendicare il proprio diritto di non mangiare qualcosa può essere difficile. Le domande inopportune, le battute, i giudizi taglienti come «Non so come tu possa farlo, io non ce la farei mai!» sono microaggressioni che le persone non onnivore devono sopportare in aggiunta al problema della scarsa scelta di cibo. Ecco quindi che si ritrovano spesso a evitare alcuni luoghi e a declinare inviti, oppure ad accettarli con grande disagio e sofferenza. Occorre ricordare che le microaggressioni si accumulano nella vita delle persone e hanno un impatto. L’accesso al cibo è accesso alla socialità e rendere una tavola accessibile è un atto di cura e rispetto dei corpi, delle scelte e della cultura altrui. Evitare di giudicare è il primo passo per rendere le tavole spazi sicuri. Quando ci troviamo nella posizione di dover organizzare, sicuramente coniugare le esigenze di ognunə può essere difficile e complicato, soprattutto se non ne sappiamo, comprendiamo o condividiamo il motivo. Ma non è una giustificazione accettabile.
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