Voce del Messico, musa e sciamana: l’incanto di Chavela Vargas
di Roberto Pisano
L’unica cantrice della mexicanidad. La vita di Chavela Vargas è una successione talmente lunga di euforia, folgorazione, musica, amori travolgenti che nessuno ha mai osato stendere una vera biografia. Comincia in Costa Rica, cresciuta dagli zii dopo essere stata abbandonata dai suoi. A diciassette anni fugge portando con sé le poche cose che ha indosso, lontana dalle menti bigotte che provano astio nel vedere quella ragazza eclettica e trasgressiva che indossa i pantaloni.
Ribelle su tutti i piani, DF accoglie la chica esuberante che canta agli angoli delle strade e nelle pulquerias (taverne), ostenta un look maschile, fuma il sigaro e gira con una pistola in tasca (per niente un giocattolo, era spesso carica).
Una bellezza tenebrosa che la Città del Messico degli anni venti e trenta tollera forse addirittura più di Parigi e New York. Capitale della libertà femminile, vi regnano allora Tina Modotti e Frida Kahlo e tante altre meno famose, in aperto contrasto con la tradizione machista che le circonda e che Chavela stessa, in fondo, canta. Con Frida intreccia una passione fitta (“sparge intorno a sé tenerezza come fossero fiori”) e si stabilisce anche nella Casa Azùl. Il Messico cattolico e tradizionalista si fa stregare da quella donna che arriva in motocicletta, spesso con una bionda al seguito, ma come nessun altro sa cantare di cuori infranti, sbronze e amori impossibili.
Chi ne incrocia le sorti non può fare a meno di ricordare la sua carcajada, la risata a gola aperta, una voce potente, spesso però raccolta a cantare canzoni di storie romantiche e uomini rotti. Le corde vocali danno forma a tutto ciò che scorre nelle sue vene, e in quelle dell’intero paese: la sua immortalità artistica la deve a classici della musica messicana, quelli talvolta senza autore che s’imparano da piccoli e affiorano sulle labbra per tutta una vita. Attraverso la sua rabbia intonata vive i testi e qualche volta li stravolge. Con Macorina trasforma l’inno libertario di una donna cubana in una celebrazione dell’amore saffico, con vestiti che sbocciano, canne da zucchero che si piegano, albe violente. Ripensa la musica ranchera, costruendo così il suo mito. “Le feste messicane finiscono sempre con un bel pianto. Vargas ha soddisfatto questo bisogno nazionale di pianto”, dice una giornalista che la conobbe. Un fatalismo, però romantico, un vivere festoso ma intriso di senso della morte. Quel senso di perdita e abbandono concentrato sul qui e ora, simile alla saudade brasiliana, ma innaffiato di tequila: con il suo amico e paroliere José Alfredo Jiménez sostengono di essersi bevuti tutta quella buona, non lasciandone una sola bottiglia decente in tutto il Messico. In quegli anni fa girare la testa ad Ava Gardner, Lev Trockij la corteggia, canta al matrimonio di Liz Taylor e alle feste di Grace Kelly e frequenta Hollywood, scorrazzando su un’Alfa bianca che si dice le avesse regalato il presidente messicano López Mateos.
Attraversa la storia di un intero secolo e all’apice della sua fama scompare dai teatri e dalle taverne, ritirandosi in un esilio forzato di vent’anni nel Morelos, lontano dall’alcool. Un oblio per cui fu creduta morta, da viva: persino Mercedes Sosa chiede di poterne visitare la tomba. Proprio allora, fenice, ricompare nel 1991 in un piccolo locale con musica dal vivo e si lascia convincere a cantare, per poi iniziare a farlo ogni venerdì. Il verbo si sparge: Almodóvar riprende le sue tracce come colonne sonore, Salma Hayek le fa intonare La llorona nel suo film dedicato a Frida, Iñarritu la vuole in Babel, Joaquin Sabina le dedica uno dei suoi pezzi più toccanti Por el bulevar de los sueños rotos. Poi arrivano l’Olympia a Parigi, la Carnegie Hall a New York. Sempre indossando sul palco gli abiti tradizionali, il poncho rosso con cui si identifica, celebrazione dell’identità nazionale.
Molte vite, connotate dalla magia che Chavela ha accarezzato e anche praticato: in età adulta gli sciamani huicoles della Sierra Madre la nominano hamana mayor, consacrando quel legame creato quando era piccina e le curarono una malattia agli occhi, strappandola per un soffio alla cecità. Se ne va nel 2012, a 93 anni (nonostante i 45mila litri di tequila che diceva di aver buttato giù), e il Messico si ferma, dalle campagne alle metropoli, per salutare la sua cantora, colei che “no tengo edad, ni porvenir y ser feliz es mi color de identidad”.
pubblicato sul numero 23 della Falla – marzo 2017
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